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Forum » MALAGIUSTIZIA IN ITALIA » (MALA)GIUSTIZIA IN ITALIA O GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI » SAGGIO "LA PESTE ITALIANA" (A cura di Gruppo di Iniziativa di Satyagraha 2009)
SAGGIO "LA PESTE ITALIANA"
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:06 | Message # 1
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«A futura memoria (se la memoria ha un futuro)».
L. Sciascia

LA PESTE ITALIANA

Dopo la rovina del Ventennio fascista il Sessantennio partitocratico di metamorfosi del Male Una storia di distruzione dello Stato di diritto e della Democrazia e di (re)instaurazione di un regime (neo)totalitario

‘‘Nei Paesi democratici, la scienza dell’associazione è la scienza-madre; il progresso di tutte le altre dipende dal progresso di quella».

«Una nazione che non domanda al suo Governo altro che il mantenimento dell’ordine è già schiava nel fondo del cuore».
A. de Tocqueville

‘‘Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo’’.
C.L. Montesquieu

A cura di:
Gruppo di Iniziativa di Satyagraha 2009 per lo Stato di diritto e la Democrazia cancellati in Italia
coordinato da Antonella Casu e Marco Cappato

INDICE

Introduzione pag. 2

Capitolo 1
FATTA LA COSTITUZIONE NE INIZIA LA DISAPPLICAZIONE pag. 4
1.1 La mancata abrogazione della legislazione fascista pag. 4
1.2. La tardiva e parziale attuazione dell’ordinamento costituzionale pag. 4
1.3 Il processo di ulteriore degenerazione partitocratica pag. 6
DAL FASCISMO ALLA PARTITOCRAZIA pag. 7
Due citazioni:
Giuseppe Maranini pag. 7
Giuliano Amato pag. 7

Capitolo 2
IL FURTO DELLA SECONDA SCHEDA pag. 8
2.1 La rivoluzione del referendum e la sua tardiva attuazione pag. 8
2.2 Il Golpe del ’78 e la giurisprudenza anticostituzionale pag. 8
2.3 Il Popolo vota, il Regime fa il contrario, il Quorum è fatto mancare pag. 9
SCHEDA 1: LE CONSULTAZIONI REFERENDARIE pag. 11
SCHEDA 2: I REFERENDUM RESPINTI DALLA CORTE COSTITUZIONALE pag. 15

Capitolo 3
UNA REPUBBLICA FONDATA SUL REGIME DEI PARTITI (PARASTATALI E NON DEMOCRATICI) pag. 16
3.1 Giuseppe Maranini e la partitocrazia pag. 16
3.2 Oligarchie di partito e negata libertà di associazione pag. 16
3.3 Referendum del 1978 pag. 17
3.4 Dall’abolizione del finanziamento al rimborso elettorale pag. 17

Capitolo 4
GIUSTIZIA ALL’ITALIANA: UNO STATO «DELINQUENTE ABITUALE» pag. 19
4.1 Codici fascisti, rinvio delle riforme e lentocrazia giudiziaria pag. 19
4.2 Dal 7 aprile al caso Tortora la politica dell’emergenza e delle leggi speciali pag. 19
4.3 Le responsabilità dei politici e della corporazione dei magistrati pag. 20
4.4 La Giustizia una grande e irrisolta questione sociale pag. 21

Capitolo 5
UN PRESIDENZIALISMO ABUSIVO, MEDIATICO ED EXTRA-ISTITUZIONALE pag. 23
5.1 L’esternazione extra-costituzionale pag. 23
5.2 1992-1993: L’acquiescenza alle interferenze della magistratura pag. 24
5.3 1995: Il presidente sordo (al «suo Parlamento») pag. 24
5.4 2001: Il presidente incatenato sul potere di grazia pag. 24

Capitolo 6
PARLAMENTO: LA CAMERA DEI PARTITI pag. 26
6.1 Nel 1976 la voce dei politici esce dal Palazzo con Radio Radicale pag. 26
6.2 Il regolamento della Camera del ’71 e il potere ai partiti pag. 26
6.3 Le violazioni del regolamento tra il 1979 e il 1983 pag. 27
6.4 Immunità parlamentare e impunità di regime pag. 27
6.5 Decretazione d’urgenza e stravolgimento dei poteri tra esecutivo e legislativo pag. 28

Capitolo 7
GLI ANNI ‘70: LA RIVOLUZIONE DEI DIRITTI CIVILI pag. 30
7.1 Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e l’abolizione dei Tribunali militari pag. 30
7.2 Aborto, da reato di massa a legge dello Stato. Come evitare i referendum pag. 30
7.3 Le riforme di liberazione sessuale «GLBT» pag. 31
7.4 La depenalizzazione del consumo personale di droghe pag. 31

Capitolo 8
UNA LETTURA ALTERNATIVA DEGLI ANNI NERI DELLA REPUBBLICA pag. 33
8.1 Elezioni anticipate: i Radicali bruciano i certificati elettorali (1972) pag. 33
8.2 L’inganno del cosiddetto «arco costituzionale» pag. 33
8.3 Di nuovo elezioni anticipate, di nuovo contro i referendum (1976) pag. 34
Scheda. Giorgiana Masi: dopo tre decenni, nessuna verità pag. 36
Scheda. P2, P38, P-Scalfari (e poi Moro, Sindona, Calvi, D’Urso, Cirillo e altri ancora) pag. 37

Capitolo 9
LA BANCAROTTA DELLO STATO ITALIANO pag. 39
9.1. Il tradimento dei vincoli costituzionali di bilancio pag. 39
9.2 L’evoluzione spaventosa del debito pubblico e il dissanguamento da interessi passivi pag. 40
9.3 Cassa integrazione straordinaria, un altro caso di «privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite» pag. 40
9.4 La «sindacatocrazia», l’altra faccia della partitocrazia pag. 41
9.5 Pensioni, cartina di tornasole della determinazione dell’Italia a non risanare i conti pubblici
pag. 42

Capitolo 10
DALLA RIFORMA «AMERICANA» POSSIBILE ALLE CONTRORIFORME PARTITOCRATICHE pag. 43
10.1 La scelta della riforma maggioritaria uninominale, come risposta popolare alla degenerazione del sistema dei partiti pag. 43
10.2 Il tradimento e il sabotaggio dei referendum pag. 43
10.3 La restaurazione partitocratica del «bipolarismo» all’italiana pag. 44

Capitolo 11
PARTITOCRAZIA, DISSESTO IDROGEOLOGICO, DISTRUZIONE DELL’AMBIENTE pag. 45
11.1 Un paese vulnerabile pag. 45
11.2 Una dissennata gestione del territorio pag. 45
11.3 Leggi inattuali e azione di surroga della protezione civile pag. 46
11.4 Il caso Napoli: disattesi i progetti di rottamazione edilizia e di area metropolitana pag. 46
11.5 La Campania sepolta dai rifiuti pag. 47

Capitolo 12
LO SFASCIO DELLE ISTITUZIONI: IL «CASO» DEI PLENUM MANCANTI pag. 48
12.1 Corte costituzionale pag. 48
12.2 Camera dei deputati pag. 48

Capitolo 13
IL MANCATO RISPETTO DEGLI OBBLIGHI INTERNAZIONALI DELLA REPUBBLICA ITALIANA pag. 50
13.1 Lotta alla fame nel mondo, un impegno tradito pag. 50
13.2 L’Italia artefice della Corte Penale a livello internazionale ma non a livello interno pag. 51
13.3 I costi italiani dell’Europa delle nazioni pag. 51
13.4 Moratoria universale della pena di morte, dopo quindici anni di inadempienze e rinvii
pag. 52
13.5 Il boicottaggio di «Iraq libero», l’unica alternativa alla guerra pag. 52
13.6 Italia-Libia, trattato contro il diritto internazionale pag. 53

Capitolo 14
LA NEGAZIONE DEL DIRITTO ALLA CONOSCENZA pag. 54
14.1 Dall’Eiar a Raiset pag. 54
14.2 La sistematica ed impunita violazione delle regole dell’informazione politica pag. 55
14.3 Le questioni popolari cancellate dall’agenda pag. 56
14.4 L’imposizione di protagonisti e antagonisti di Regime pag. 58
14.5 Il «genocidio politico e culturale» (F. Storace) del movimento radicale pag. 59
14.6 Il compiuto attentato ai diritti civili e politici pag. 61

Capitolo 15
GLI ULTIMI ANNI DEL REGIME pag. 63
15.1 Sugli «obblighi costituzionali inderogabili» e sulla partecipazione dei Radicali alle elezioni europee pag. 63
15.2 La marcia di Natale 2005 per l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché nove milioni di processi pendenti sono la più grande questione sociale del paese pag. 63
15.3 Il «Porcellum» del 21 dicembre 2005 pag. 65
15.4 Elezioni politiche 2006 – dall’applicazione all’interpretazione della legge: 8 senatori nominati al posto di quelli legittimamente eletti pag. 66
15.5 La Commissione di vigilanza Rai nella XV legislatura e il Centro d’Ascolto dell’informazione radiotelevisiva pag. 67
15.6 Il caso della Commissione di vigilanza sulla Rai nella XVI legislatura pag. 68

Capitolo 16
PERCHÉ LA RESISTENZA PUÒ ANCORA VINCERE pag. 70
16.1 Dal 1974 la storia raccontata attraverso i referendum: l’altra faccia del paese pag. 70
16.2 L’annullamento dei referendum attraverso gli appelli all’astensione pag. 70
16.3 La scandalosa campagna della Chiesa sulla legge 40 pag. 71
16.4 Dai sondaggi un’Italia laica e non in sintonia con i partiti pag. 71

Scheda n°1
CAMPAGNE ELETTORALI RADICALI: «CERTIFICATI BRUCIATI», «SCIOPERO DEL VOTO», «VOTA EMMA», «SATYAGRAHA 2009» pag. 74
1972 e 1983: dal bruciare i certificati elettorali allo sciopero del voto pag. 74
1999: «Vota Emma», vendita degli averi per ricomprarsi l’informazione rubata pag. 74
Satyagraha 2009 pag. 76

Scheda N° 2
RADICALI IN GALERA (DAL '66 A OGGI) pag. 77

Scheda N° 3
RADICALI FAMOSI E PERCIO’ CLANDESTINI pag. 83

Il saggio può essere scaricato qua (in formato Word):

Attachments: peste_italiana1.rtf (433.3 Kb)


Message edited by Eugenio_Travaglio - Giovedì, 19/11/2009, 16:07
 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:17 | Message # 2
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SCHEDE DA VEDERE NEL DOCUMENTO SCARICATO, QUA è IMPOSSIBILE INSERIRE TABELLE

Capitolo 3

UNA REPUBBLICA FONDATA SUL REGIME DEI PARTITI (PARASTATALI E NON DEMOCRATICI)

L’ Articolo. 49 della Costituzione recita «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.» Mentre per i referendum i partiti pongono regole particolarmente restrittive, per quanto riguarda se stessi non stabiliscono alcuna regola: l’unico intervento legislativo è quello per garantirsi finanziamento di Stato.

3.1 Giuseppe Maranini e la partitocrazia

Giuseppe Maranini10 pone fin dall’immediato dopoguerra il problema della partitocrazia. A suo avviso, il neonato regime repubblicano rischiava di essere travolto dalla debolezza delle istituzioni formali rispetto alle istituzioni di fatto (partiti e sindacati) e per questo sollecita il rafforzamento degli istituti di garanzia da porre a presidio della Costituzione. Riconoscendo il pregio della presenza di una Corte costituzionale e di una piena indipendenza della magistratura, ritiene necessario affiancare a questi poteri di garanzia il rafforzamento del prestigio delle istituzioni, garantendone una piena autonomia rispetto ai partiti. Alla base pone la necessità di una regolamentazione giuridica dei partiti e la necessità di far emergere un profilo coerentemente parlamentare della forma di governo, ovvero quella di rafforzare i poteri impliciti del Presidente, la riforma del sistema elettorale in senso uninominale maggioritario, per innescare una dinamica di competizione aperta nel sistema politico. Introduce il termine «partitocrazia» proprio ponendo l’attenzione sul fatto che i partiti hanno il potere di controllare lo Stato senza essere controllati.
La formulazione dell’art. 49 è il frutto della convinzione, formatasi tra i Costituenti, secondo cui la funzione dei partiti politici e delle altre formazioni sociali dovrebbe favorire l’affermazione di una democrazia matura, che per il tramite degli stessi partiti garantirebbe contemporaneamente la proposta politica e una funzione di controllo dell’azione dei rappresentanti. Questo secondo aspetto, complementare al primo, da svolgere al di fuori delle sedi istituzionali, si fonda sulla necessità di una partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica del Paese, non limitandosi al mero momento elettorale, ma garantendo loro una partecipazione continua alla vita politica, nonché l’esercizio effettivo dei diritti politici.

3.2 Oligarchie di partito e negata libertà di associazione

Nel momento in cui i partiti – con la sola eccezione dei Radicali - inseriscono nel proprio statuto il divieto di iscrizione ad altre formazioni politiche, di fatto eliminano il diritto costituzionale alla libertà di associazione.
Il processo di partecipazione democratica è ulteriormente limitato attraverso la promulgazione di leggi elettorali che consentono alle oligarchie di partito di nominare i candidati che saranno eletti grazie a liste bloccate senza preferenze. Contemplando la compatibilità di incarichi istituzionali con incarichi di responsabilità politica nel partito, inoltre, i partiti portano gli eletti a rispondere innanzi tutto al partito prima ancora che al popolo elettore, disattendendo così quanto stabilito dall’articolo 67 della Costituzione che recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato».12
L’introduzione nel 1974 (Legge n. 195) di finanziamenti pubblici ai partiti come pura elargizione istituzionalizza, a carico dello Stato, il sostentamento delle strutture dei partiti piuttosto che il sostegno all’iniziativa politica. Tale legge riconosce i contributi ai partiti rappresentati in Parlamento, penalizzando quindi le nuove formazioni politiche e la partecipazione all’interno dei partiti che, dotati di ingenti risorse pubbliche, rafforzano l’apparato burocratico divenendo sempre più oligarchici.
La giustificazione data per l’istituzione dei finanziamenti pubblici ai partiti, a fronte degli scandali per tangenti emersi nel 1965 con il caso Trabucchi e nel 1973 con lo scandalo petroli, era rassicurare l’opinione pubblica che il sostegno dello Stato avrebbe risolto le esigenze finanziarie dei partiti organizzati, stroncando la corruzione e la collusione con i grandi interessi economici. La legge viene approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti, fatta eccezione per i liberali.
Gli scandali degli anni successivi (caso Lokheed, Sindona e altri) dimostrano che la legge non ha avuto alcun effetto moralizzatore.

3.3 Referendum del 1978

L’11 giugno 1978 gli elettori sono chiamati al voto sul referendum proposto dai Radicali per l’abrogazione della Legge 195/74. I partiti che invitano a votare «No» rappresentano il 97% dei voti e i Radicali l’1,1. Il referendum non passa, ma la percentuale dei voti favorevoli è molto alta, il 43,6%. I promotori del referendum abrogativo del finanziamento pubblico ai partiti sostengono che lo Stato deve favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per «fare politica», non per garantire le strutture e gli appartati di partito, che devono essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti.
Il sistema dei partiti continua a ignorare l’orientamento prevalente dell’opinione pubblica e del loro stesso elettorato e nel 1980 tenta il raddoppio del finanziamento pubblico, che viene in quel momento bloccato a causa della contemporanea esplosione dello scandalo Caltagirone (finanziamenti elargiti dagli imprenditori a partiti e a politici).
Nel 1981, con la legge 659, vengono introdotte le prime modifiche. L’ostruzionismo parlamentare radicale volto a bloccare l’istituzione dell’indicizzazione dei finanziamenti e a ottenere maggiore trasparenza dei bilanci dei partiti nonché controlli efficaci, fa sì che il testo approvato, pur prevedendo il raddoppio dei finanziamenti pubblici, preveda anche il divieto per i partiti e per i politici (eletti, candidati o aventi cariche di partito) di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione, da enti pubblici o a partecipazione pubblica e una qualche forma di pubblicità sui bilanci. I partiti non sono tenuti alla redazione di un vero e proprio bilancio, ma al solo deposito di un rendiconto finanziario relativo alle entrate e alle uscite dell’anno e non sono soggetti a effettivi controlli.
Nel 1982, su sollecitazione dei radicali Marcello Crivellini ed Emma Bonino, che contestano lo schema di bilancio predisposto dalla Presidenza della Camera perché non prevede la situazione patrimoniale dei partiti, la Presidente Nilde Iotti risponde: «Poiché la legge n. 659 del 1981 non prevede la compilazione di un rendiconto economico, ma solo di un rendiconto di entrate e spese finanziarie, il collegamento del rendiconto finanziario con la situazione patrimoniale diviene particolarmente disagevole e la pubblicazione congiunta dei due documenti potrebbe disorientare i lettori dei bilanci dei partiti.» E ancora: «Poco significativi, anzi fuorvianti, per l’opinione pubblica, sono i valori delle attività e passività e la cifra del netto patrimoniale, che i lettori dei bilanci più sprovveduti tenderebbero a identificare con la «potenzialità economica» dei partiti. In qualche caso, poi, si avrebbe un deficit patrimoniale anziché un patrimonio netto (per il prevalere delle passività sulle attività), che potrebbe mettere in imbarazzo alcuni partiti nei confronti dell'opinione pubblica».

3.4 Dall’abolizione del finanziamento al rimborso elettorale

Il finanziamento pubblico ai partiti13 viene abolito nell’aprile del 1993 con il 90,3% dei voti espressi sul referendum radicale. Ma nel dicembre dello stesso anno viene «aggiornata» la legge sui rimborsi elettorali, definiti «contributo per le spese elettorali»,14 subito applicata tre mesi dopo, in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994. Nel giro di pochi mesi, il rimborso è erogato in un’unica soluzione per un ammontare complessivo nella legislatura che tra, Camera e Senato, è pari a 47 milioni di euro. La stessa norma viene applicata in occasione delle successive elezioni politiche del 21 aprile 1996.
Nel 1997, con la legge15 recante: «Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», di fatto si reintroduce il finanziamento pubblico ai partiti.16 All'atto della dichiarazione annuale dei redditi delle persone fisiche, ciascun contribuente può destinare una quota pari al 4 per mille dell'imposta sul reddito al finanziamento dei movimenti e partiti politici, senza poter indicare a quale partito. La data per l’erogazione in favore dei partiti viene fissata entro il 31 gennaio di ciascun anno. Per poterla applicare da subito, si inserisce una norma transitoria17 che consente di erogare le somme già a partire dal 1997 fissando il fondo, per l’anno in corso, in 82.633.000 euro e stabilendo che per gli anni successivi tale fondo è calcolato sulla base delle dichiarazioni dei contribuenti e che in ogni caso non può superare i 56.810.000 euro. Intanto per il 1997, dopo meno di un mese dall’approvazione della legge, i partiti incassano nuovamente il finanziamento pubblico.
Con la stessa legge, si introduce l’obbligo di redigere un bilancio per competenza, comprendente stato patrimoniale e conto economico.18 I controlli continuano a essere affidati alla Presidenza della Camera. E’ soggetto al controllo della Corte dei Conti solo il rendiconto delle spese elettorali.
L’adesione alla contribuzione volontaria per destinare il 4 per mille ai partiti sarà scarsissima.19
Nel giugno 1999 viene emanata una nuova legge20, che ancora una volta cela dietro il titolo «Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie» un vero e proprio finanziamento pubblico: infatti è un rimborso elettorale solo teorico, non avendo alcuna attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali.
I fondi sono quattro, oltre a quello previsto per le consultazioni referendarie: uno per la Camera, uno per il Senato, uno per le elezioni al Parlamento europeo e uno per le elezioni regionali. Il fondo si costituisce in occasione della consultazione elettorale e si eroga in rate annuali; in caso di scioglimento anticipato della legislatura si interrompe l’erogazione. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa ammonta a 193.713.000 euro.
Il 16 maggio 2001 si vota e i partiti iniziano a percepire questo cospicuo «rimborso elettorale».
A luglio 2002, si emana la legge (21) recante «Disposizioni in materia di rimborsi elettorali». Il fondo diventa annuale, sopravvive la norma che prevede l’interruzione dell’erogazione in caso di fine anticipata della legislatura rispetto alla naturale scadenza. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa passa da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro.
Il 26 febbraio 2006, con la legge n. 5122 l’erogazione è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura indipendentemente dalla sua durata effettiva. Con quest’ultima modifica l’aumento è esponenziale. Con lo scioglimento anticipato della XV legislatura, i partiti iniziano a percepire il doppio dei fondi, giacché contestualmente introitano le quote annuali relative alla XV e alla XVI legislatura.

10 Giurista e docente, intellettuale che ha percorso le tappe più significative della storia costituzionale d’Italia
11 La libertà di associazione è garantita nello Statuto del Partito radicale del 1967. Art. 2. DEGLI ISCRITTI DELLE ASSOCIAZIONI DEI PARTITI REGIONALI. 2.1. Gli iscritti. 2.1.1. Può iscriversi al partito radicale chiunque, anche non cittadino italiano che abbia compiuto l'età di 16 anni. Le condizioni di iscrizione al partito sono l'accettazione del presente statuto, il versamento delle quote individuali al partito federale nella misura stabilita dal congresso federale, l'impegno ad aderire o a costituire associazioni radicali secondo i propri interessi politici, culturali, sindacali, o altri. Le iscrizioni sono accolte dalla segreteria del partito federale, direttamente o tramite le associazioni radicali, o i partiti regionali.
12 Anche in questo caso fa eccezione il Partito Radicale che nel proprio Statuto sancisce: Art. 5. ELEZIONI ED ELETTI 5.1. In tutte le elezioni cui partecipa con liste proprie (comunali, provinciali, regionali, politiche) il partito si presenta con la denominazione «Partito radicale». Gli eletti, nell'esercizio della loro attività rappresentativa, non sono vincolati da mandati né da alcuna disciplina. La libertà di voto non è limitata da deliberazioni dei gruppi degli eletti, deliberazioni che hanno valore indicativo.
13 Istituito nel 1974 con la legge n. 195, a prima firma Flaminio Piccoli (Dc) approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti eccetto il Pli. Nel settembre 1974 il Pli propone un referendum sul quale non vengono raggiunte le firme necessarie. L’11 giugno 1978 gli elettori sono chiamati al voto sul referendum proposto dai Radicali . La maggioranza dei partiti invita a votare «No», il referendum non passa, ma la percentuale dei «Sì» raggiunge il 43,6%.
14 Legge n. 515 del 10 dicembre 1993
15 Legge n. 2 del 2 gennaio 1997
16 Il Comitato radicale promotore del referendum vinto nel 1993 sull’abolizione del finanziamento pubblico, tenta il ricorso rispetto al tradimento dell’esito referendario posto in essere con la legge 2/97, ma pur essendo stato riconosciuto in precedenza come potere dello Stato, gli viene negata la possibilità di depositare tale ricorso
17 Art. 4 Legge 2/97
18 Finalmente dopo anni di battaglia. Si veda risposta della Presidente della Camera Nilde Iotti ai parlamentari radicali del 1982
19Nel 1998, con l’articolo 30 della Legge n. 146 si introduce un’altra norma transitoria che fissa il tetto in 110 miliardi di lire
20 Legge n. 157 del giugno 1999
21 Legge n. 156 del 26 luglio 2002
22 Legge n. 51 del 26 febbraio 2006 (conversione in Legge del Decreto legge «mille proroghe» n. 273 del 30 dicembre 2005, recante definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all' esercizio di deleghe legislative.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:18 | Message # 3
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Capitolo 4

GIUSTIZIA ALL’ITALIANA: UNO STATO «DELINQUENTE ABITUALE»

Dal Codice Rocco alle leggi speciali, dal processo 7 aprile al caso Tortora, dalle riforme negate all’impunità sistematica, le cause della più grande emergenza del Paese che è anche una grande questione sociale e ci attira il record di condanne dalla Corte europea per i diritti umani.

4.1 Codici fascisti, rinvio delle riforme e lentocrazia giudiziaria

In qualsiasi democrazia la Giustizia è il momento nevralgico di uno Stato di diritto. Il mantenimento in vita dei Codici fascisti, la lentezza nella entrata in funzione di importanti istituti costituzionali, la mancanza e il continuo rinvio di qualsiasi riforma da parte del Parlamento ne ha da subito inficiato il carattere democratico. Il parziale e lento adeguamento di alcune norme del Codice Rocco alla Costituzione da parte della Corte costituzionale non ne modifica l’impostazione di fondo, alla quale si sommano strutturali inadeguatezze organizzative.
Fino all’inizio degli anni ‘70 ci si può illudere che si tratti delle conseguenze di una troppo lenta transizione dal regime fascista al sistema democratico e costituzionale, dovuta anche alle inevitabili resistenze conservatrici dei corpi dello Stato. Durante gli anni ‘70 la crisi della giustizia italiana acquisisce invece progressivamente una connotazione che ne aggrava strutturalmente le caratteristiche illiberali. In nome della necessità di una efficace lotta al terrorismo politico e alla grande criminalità organizzata, anziché rafforzare le strutture ordinarie della giustizia, riformare i codici e l’ordinamento, le maggioranze parlamentari di unità nazionale procedono di volta in volta con leggi d’emergenza concentrando poteri speciali intorno alla figura del Pubblico ministero e ad alcuni strumenti straordinari di coordinamento dell’azione penale.
Nel 1978, ad esempio, il processo di Torino ai capi storici delle Brigate Rosse può ancora svolgersi in un contesto di amministrazione ordinaria, malgrado la contemporaneità con i drammatici giorni del sequestro e assassinio di Aldo Moro. Dopo il rifiuto di 135 cittadini chiamati a far parte della giuria, è sorteggiata come giurato popolare il segretario del Partito radicale, Adelaide Aglietta (la prima donna segretario di partito nella storia della Repubblica). Nonostante le minacce di morte, con la sua accettazione Aglietta consente la formazione della giuria e la successiva tenuta di un processo equo e regolare.

4.2 Dal 7 aprile al caso Tortora la politica dell’emergenza e delle leggi speciali

Viceversa, il processo 7 aprile e il processo Tortora sono emblematici della logica emergenziale. Con il primo, nel pieno dell’azione terroristica delle Brigate Rosse, un pubblico ministero di Padova criminalizza (7 aprile 1979) l’intero gruppo dirigente di un movimento extraparlamentare, Autonomia Operaia, con l’imputazione di insurrezione armata e l’accusa di essere la vera «direzione strategica» delle Brigate Rosse. Lo scopo che quel procuratore si propone è quello di impedire ogni possibile collegamento fra la base studentesca e operaia di quel movimento con l’organizzazione militare e clandestina delle Br. Quelle incriminazioni non hanno tuttavia, come i fatti successivi dimostrano, alcun fondamento probatorio. Quei dirigenti e quei militanti di Autonomia Operaia sono probabilmente responsabili in proprio di violenze e di reati anche gravi, ma non facevano parte delle Brigate Rosse e tanto meno ne sono la direzione strategica. E’ un episodio di giustizia sommaria. Non ha alcuna importanza (e neppure si voleva) arrivare al processo e alla condanna. La lunga carcerazione preventiva (cinque anni), consentita dalla legislazione di emergenza, deve assicurare una sorta di condanna senza processo.
Solo lo scandalo dell’elezione del leader del movimento Toni Negri alla Camera dei deputati nella liste radicali costringe i giudici di Padova a cimentarsi con il processo. Nonostante la fuga di Toni Negri in Francia, il processo nei confronti dei suoi compagni si conclude in primo grado con sentenze che non giustificano la lunga detenzione preventiva e che sono successivamente ridotte e in molti casi del tutto annullate in appello e in Cassazione. Uno degli imputati, Emilio Vesce, che diviene in seguito militante e parlamentare radicale, è condannato in primo grado a cinque anni e mezzo e assolto nei gradi successivi: ne aveva scontati cinque di carcerazione preventiva. Quelle incriminazioni e quegli arresti, senza prove e senza processo, fanno tuttavia da battistrada alla legge sui pentiti della cosiddetta lotta armata a cui si ispira poco dopo la successiva legge sui pentiti di mafia e camorra.
Enzo Tortora è la principale vittima di queste leggi e di queste prassi in un processo alla camorra (1983-1986) per il quale viene usata la definizione di «macelleria giudiziaria» (infatti i mandati di cattura del maxi-blitz anticamorra del 17 giugno 1983 sono 856; di questi circa un centinaio i casi di omonimia successivamente accertati). Arrestato, processato e condannato a dieci anni in primo grado in base alle dichiarazioni, prive di qualsiasi riscontro, di alcuni pentiti che lo hanno chiamato in causa come affiliato a un clan camorristico, viene assolto in appello e poi in Cassazione dopo una dura lotta giudiziaria e politica, di cui è protagonista il Partito Radicale. Non in nome di un astratto garantismo ma per combattere i concreti stravolgimenti che leggi e prassi hanno inferto ai diritti e alle garanzie dei cittadini, così come alla giustizia e all’ordinamento giudiziario. Anche in questo caso tuttavia è necessario lo scandalo dell’elezione nelle liste radicali di Enzo Tortora al Parlamento europeo nel 1984 per interrompere l’omertà del mondo politico e giornalistico nei confronti di quel processo e dell’uso che in esso era fatto della legge sui pentiti. A differenza di Negri, Tortora - che ha avuto a Bruxelles la copertura dell’immunità parlamentare - si dimette dal P.E. per affrontare il processo e vedere riconosciuta la sua innocenza.
Il confronto e la lotta giudiziaria e politica intorno al «caso 7 Aprile» e sul «caso Tortora» consentono nell’immediato di limitare i guasti più gravi nella applicazione delle leggi di emergenza, riducono i tempi della carcerazione preventiva (poi denominata eufemisticamente custodia cautelare) e sembrano, sotto la spinta dell’opinione pubblica, aprire la strada a una vera riforma della giustizia come dimostra la larghissima maggioranza popolare che approva nel 1988 il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati.

4.3 Le responsabilità dei politici e della corporazione dei magistrati

Le resistenze della corporazione dei giudici unite alla debolezza della classe politica riescono però sempre a impedire ogni possibilità di riforma. Il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati è di fatto annullato da una successiva legge del Parlamento firmata dal ministro della Giustizia di uno dei partiti – il Psi – che pure ha promosso il referendum. L’unica riforma realizzata, quella del Codice di procedura penale, non produce gli effetti sperati per il mancato adeguamento delle strutture giudiziarie al nuovo Codice e perché il rito accusatorio che esso ha introdotto non tollera i poteri eccezionali attribuiti alle procure e il conseguente squilibrio fra accusa e difesa.
Tranne quello sulla responsabilità civile dei magistrati, poi vanificato da una legge del Parlamento, tutti gli altri tentativi di modificare la situazione per via referendaria sono o impediti dalle sentenze della Corte costituzionale (è così per il referendum abrogativo dei reati d’opinione e di associazione previsti dal Codice Rocco, nel 1978, e per quello che abrogava il sistema proporzionale nella elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, nel 1988) o annullati, nonostante la vasta maggioranza conseguita, per il mancato raggiungimento del quorum del 50% dei votanti (è così per quelli , sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati, sul sistema elettorale del Csm e sulla separazione del carriere nel 2000 quando il quorum non è raggiunto in presenza di una campagna astensionista promossa da Berlusconi che pure si dichiara d’accordo su quelle riforme, ma invita gli elettori a disertare le urne perché, una volta eletto, ci avrebbe pensato lui). Ugualmente vani sono i tentativi di procedere per via legislativa. La riforma del Codice Rocco è per trenta anni continuamente rinviata di Governo in Governo, di legislatura in legislatura, indipendentemente dalla composizione della maggioranze parlamentari nonostante il lavoro svolto dalle commissioni di volta in volta nominate dai diversi ministri.
Conserviamo di conseguenza un codice di ispirazione autoritaria ma di grande qualità giuridica, alterato da una congerie di leggi e leggine eccezionali che ne peggiorano la qualità rendendolo ancora più autoritario. Quanto alla Giustizia civile, nonostante il suo evidente dissesto, la riforma del Codice del ‘42 non entra mai neppure nell’agenda politica e nei programmi dei diversi governi.
Alle responsabilità politiche, poi, si contrappongono e sommano le responsabilità della magistratura associata e delle sue correnti che danno una interpretazione sempre più corporativa dell’autonomia dell’ordine giudiziario, interpretata come potere dello Stato chiuso in sé stesso, contro la lettera e lo spirito della Costituzione che invece la finalizza alla indipendenza di giudizio dei magistrati. Il Csm, oltre a divenire il principale sostenitore delle leggi e dei poteri speciali e di prassi più che discutibili nell’uso spregiudicato della legge sui pentiti, durante e dopo Tangentopoli da strumento di autonomia amministrativa e disciplinare e di consulenza nei rapporti con il Governo e con il Parlamento, si costituisce nella pratica in organo di vero e proprio contropotere nei confronti dei poteri esecutivo e legislativo. A questo si aggiunge l’invadente presenza di magistrati negli uffici legislativi di tutti i ministeri e l’occupazione di tutte le direzioni generali del ministero della Giustizia che di fatto limita o annulla la normale dialettica fra ministro della Giustizia e Csm e quella fra potere legislativo e ordine giudiziario. Senza dimenticare le migliaia di arbitrati svolti dai magistrati, che provocano dei «cortocircuiti» patologici fra giustizia e mondo delle imprese, fino a costituire una possibile fonte di corruzione.

4.4 La Giustizia una grande e irrisolta questione sociale

La crisi della Giustizia italiana diviene perciò una grande e irrisolta questione sociale. Un Paese senza giustizia, con 9 milioni di processi pendenti fra civile e penale, e con il 90-95% di reati che restano impuniti per incapacità di individuarne gli autori, è un Paese che si condanna a vivere nella illegalità. La lentezza della giustizia civile ha gravissime ricadute sulla vita economica del paese e allontana gli investimenti stranieri. Occorrono oltre quattro anni in media per ottenere una sentenza in primo grado, una durata che può raddoppiare in caso di appello. Indipendentemente dall’esito formale del giudizio, questi tempi pregiudicano i diritti del creditore e avvantaggiano il debitore, premiano chi ha torto e puniscono chi ricorre alla giustizia per far valere il suo diritto e la sua ragione. Il rapporto Doing Business della Banca Mondiale, che misura l’indicatore di efficienza nella applicazione dei contratti in rapporto al funzionamento del sistema giudiziario, colloca l’Italia al 155mo posto fra 181 paesi.
Le conseguenze che questo disordine normativo e giudiziario produce sul sistema penitenziario sono gravissime in termini di sovraffollamento, inumanità della pena, illegalità costituzionale (la Costituzione all’art.27 stabilisce che la pena non può essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato).
E’ politicamente assai lontana quella «marcia per l’amnistia» del Natale del 2005, alla quale partecipano alcuni leader politici e anche l’attuale capo dello Stato. Se approvata, l’amnistia - oltre ad alleggerire la situazione già allora insostenibile del sistema penitenziario - eliminerebbe gran parte dell’arretrato e consentirebbe al sistema giudiziario di riorganizzarsi e ripartire e al sistema politico di affrontare sul piano legislativo le necessarie riforme.
Il Parlamento non ne ha il coraggio. Si approva l’indulto che allevia temporaneamente - solo temporaneamente - il sistema penitenziario ma continua a ingolfare la macchina giudiziaria costretta ad istruire processi sui quali l’indulto ha cancellato la pena e tenuto in vita il reato. Le riforme non si fanno. E si riprende ad affrontare con la solita logica dell’emergenza ogni nuovo problema sociale. Certo è più facile alimentare campagne demagogiche sulla sicurezza che riformare il sistema penale e civile. E’ più facile inasprire le pene e aumentare le tipologie di reato che realizzare e sperimentare quel giusto equilibrio fra reclusione e pene alternative che è da decenni in vigore negli altri paesi europei. E’ più facile riempire le carceri di tossicodipendenti. Ma per questa strada si amplia e non si restringe il perimetro della illegalità, non si danno risposte alla domanda di giustizia e a quella di sicurezza, si alimenta soltanto un clima di intolleranza e di giustizia sommaria contro il diverso e il più debole, si cancella la Costituzione e ci si allontana da quel modello di Stato di diritto che da almeno due secoli si è affermato in Europa.
L’Italia è sempre fra gli Stati più condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per violazioni della Convenzione europea sui diritti umani e in particolare dell’art. 6, che impone agli Stati di garantire una durata ragionevole dei processi. Il 37 per cento di tutte le sentenze di condanna da parte della Corte per inefficienza della giustizia è a carico dell'Italia.
Nel 2008 la Corte emette 82 sentenze contro l’Italia (più che per qualsiasi altro Stato dell’Europa occidentale), delle quale 51 per la lentezza dei processi.
Al 31 dicembre 2008 pendono presso la Corte 4.200 casi riguardanti l’Italia, cioè il 4,3 per cento del totale (solo Russia, Turchia, Romania e Ucraina ne avevano un numero maggiore). Di tali casi, 2.600 sono per la durata eccessiva dei processi, materia per la quale l’Italia ha riportato 999 condanne negli ultimi dieci anni. In tale periodo (1° novembre 1998 – 31 dicembre 2008), la Corte dichiara ammissibili 1.744 casi riguardanti l’Italia – un numero inferiore solo a quello dei casi riguardanti la Turchia.
L'Italia è inoltre lo Stato con il maggior numero di sentenze di condanna della Corte europea di Strasburgo non eseguite sul piano interno: 2.467 su un totale di 3.544 casi pendenti dinanzi al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Il numero dei procedimenti contro l’Italia a Strasburgo sarebbe ancora più alto se il 18 aprile 2001 non fosse entrata in vigore la Legge 89 (detta ‘Legge Pinto’), che impone di richiedere un indennizzo per l’eccessiva durata dei processi attraverso il ricorso a una Corte di Appello italiana invece che alla Corte europea. Paradossalmente, anche i tempi di questi ricorsi sono però solitamente più lunghi di quelli previsti dalla legge e gli indennizzi sono a volte incongrui, fornendo nuove ragioni per ricorrere a Strasburgo.
Ancora nel marzo 2009, il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa richiama l'Italia a risolvere il problema strutturale dell'eccessiva durata delle procedure giudiziarie nei processi civili, penali e amministrativi. Il Comitato inoltre invita ad adottare urgentemente misure ad hoc per ridurre il numero di cause pendenti davanti ai tribunali e a rivedere la legge Pinto creando un fondo speciale per i risarcimenti e semplificando le procedure per ottenerli.
Nel solo 2008 gli indennizzi ai cittadini per la lentezza dei processi, in base alla legge Pinto, costano allo Stato oltre 32 milioni di euro.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:19 | Message # 4
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Capitolo 5

UN PRESIDENZIALISMO ABUSIVO, MEDIATICO ED EXTRA-ISTITUZIONALE

La lenta trasformazione delle funzioni e prerogative del Presidente della Repubblica muta il suo ruolo da quello di «garante» e di «custode» a quello di arbitro e mediatore fra le forze politiche. Così come il grande consenso popolare a un bipartitismo sul modello anglosassone viene trasformato dalla partitocrazia in un bipolarismo all’Italiana, che conserva intatto il potere dei partiti, il «Presidenzialismo» viene attuato in forme abusive: attraverso una lenta ma implacabile opera di svuotamento dei poteri istituzionali formali e degli strumenti a disposizione del Presidente (dal potere di grazia allo strumento del «messaggio alla Camere», a quello del «rinvio» delle leggi al Parlamento), mentre si afferma un potere di fatto di esternazione diretta al popolo per mezzo della televisione. Parallelamente, al ruolo di garante della Costituzione si sostituisce quello di arbitro: perennemente impegnato nella «moral suasion» tra i partiti; fino all’ultimo clamoroso esempio: l’impotenza dimostrata in occasione della paralisi della Commissione di Vigilanza e degli «obblighi costituzionali inderogabili», inutilmente invocati per mesi dal Presidente Giorgio Napolitano.

5.1 L’esternazione extra-costituzionale

La Costituzione non prevede alcun potere presidenziale di esternazione diverso da quelli formali che si esercitano attraverso i messaggi al Parlamento (artt. 74 e 87 cpv.). Al Parlamento, dunque, e non al popolo o alla nazione. Al di fuori di questi poteri formalmente previsti, l’»irresponsabilità» del Presidente della Repubblica durante il suo mandato dovrebbe far cadere ogni suo altro intervento pubblico sotto la responsabilità politica del Presidente del Consiglio o, a seconda delle competenze, dei singoli ministri. E’ una nozione costituzionale che praticamente si perde dopo lo scadere del mandato del Presidente Einaudi. Da allora i diversi presidenti, in particolare Cossiga, fanno un uso spropositato della cosiddetta «esternazione». Negli ultimi due anni della sua presidenza, Cossiga si trasforma da garante della Costituzione in picconatore del Governo e delle altre istituzioni. Nell’agosto 1991 Pannella prepara l’impeachment, la richiesta di messa in stato d’accusa per attentato alla Costituzione e nel novembre successivo presenta una denuncia formale all’autorità giudiziaria nei confronti di Cossiga, sulla base delle stesse motivazioni. Solo nel dicembre del 1991 l’allora Pds presenta a sua volta la richiesta di impeachment. Dopo le elezioni politiche dell’aprile 1992 (e con un anticipo di dieci settimane rispetto alla scadenza naturale del suo mandato) Cossiga si dimette.
«Quando la Carta costituzionale ha voluto dar voce al Presidente della Repubblica, ha previsto il diritto di messaggio alle Camere. Il colloquio diretto del Capo dello Stato con il popolo non è previsto. Si può dire che non vi è norma che lo impedisca o lo condanni, ma non è previsto, soprattutto perché è un colloquio che finirebbe per passare sopra il Parlamento, con il quale invece è costituzionale il colloquio del messaggio.» Così Oscar Luigi Scalfaro nell’aprile del 1991. Parole che, conquistato il più alto incarico dell’organigramma istituzionale del nostro paese nel maggio 1992, Scalfaro pare sin quasi da subito dimenticare. Lo stile del presidente non cambia con il passare dei mesi, per cui anche per lui viene richiesto l’impeachment. I Club Pannella-Riformatori organizzano una raccolta di firme (oltre centomila) per spingere il Presidente della Repubblica a dimettersi, ma Scalfaro conclude senza particolari scossoni il suo mandato, difeso a spada tratta in particolare dal centrosinistra.
Le presidenze Ciampi e Napolitano si caratterizzano per la loro continuità nell’abuso del potere di esternazione. Un’esternazione che è, forse, meno eversiva nei contenuti rispetto a quella di Cossiga e meno «emergenziale» di quella di Scalfaro. Uno stile più da «italiani brava gente», ma che comunque è fuori dal dettato costituzionale. Soprattutto a partire dalla presidenza Cossiga, i Presidenti della Repubblica sono quotidianamente impegnati in esternazioni su argomenti di qualsivoglia tipo, un «interventismo» che impedisce loro di svolgere il compito e la funzione per cui si trovano al Quirinale: quello di garanti della Costituzione.

5.2 1992-1993: L’acquiescenza alle interferenze della magistratura

La rinuncia ad esercitare questo ruolo si rivela in modo particolare durante il periodo di Tangentopoli, quando in seguito ad avvisi di garanzia emanati dai giudici di Milano, si afferma la pratica di sollecitare o accettare con quasi assoluta automaticità le dimissioni di ministri o di sottosegretari. Si crea un clima da caccia alle streghe, a cui il Presidente della Repubblica Scalfaro e lo stesso Presidente del Consiglio Amato non vogliono e non sanno reagire. Indipendentemente dalla gravità dei reati su cui i giudici indagano e dell’indignazione dell’opinione pubblica, non ci si rende conto della gravità del precedente che si contribuisce a creare, che mette nelle mani di un qualsiasi giudice, nella fase solo iniziale di un procedimento penale, il destino di un ministero o, come accaduto anche recentemente, di un intero Governo. Tanto più grave si dimostra questo atteggiamento corrivo nei confronti dei magistrati milanesi, manifestatosi anche in occasione del loro clamoroso pronunciamento contro un provvedimento del Governo, quando Scalfaro ritiene di dover reagire solo di fronte all’ipotesi di essere chiamato personalmente in causa: «Non ci sto», proclama allora davanti alle telecamere.

5.3 1995: Il Presidente sordo (al «suo Parlamento»)

Il 28 settembre 1995, nel pieno della raccolta firme dei radicali su 20 referendum, 485 deputati e senatori di ogni parte politica - maggioranza assoluta nelle due Camere - si rivolgono al Presidente della Repubblica Scalfaro, nella sua qualità di supremo garante della Costituzione, per denunciare il tentativo di annullamento, da parte dell’informazione pubblica, dei referendum, e per chiedergli un intervento che consenta l’immediato ripristino della legalità e del diritto. La maggioranza assoluta dei parlamentari scrive al Presidente quello che i Radicali, inascoltati, denunciano da decenni: che ancora una volta è in corso un attentato ai diritti civili e politici dei cittadini. «Questa iniziativa – si legge nel documento - sostenuta da un ampio schieramento politico e parlamentare, ha incontrato un gravissimo e illegittimo ostruzionismo da parte della pubblica Amministrazione, del servizio pubblico di informazione radiotelevisivo, così come, del resto, da parte della stampa e del sistema televisivo privato», e prosegue: «Non un servizio nei telegiornali e nelle trasmissioni di informazione è stato dedicato agli argomenti oggetto di referendum popolari. Si è così realizzato contro le leggi e i diritti politici dei cittadini, un autentico attentato silenzioso che proprio per questo suo carattere è stato ancora più efficace, doloso e violento». Sempre il 28 settembre, Marco Pannella, intervenendo in diretta dall’ospedale ove è ricoverato al quarto giorno di sciopero della sete, chiede al Presidente della Repubblica «che ogni giorno parla su ogni argomento» di rispondere alla denuncia proveniente dalla maggioranza assoluta del Parlamento. Il Presidente si limiterà a un generico richiamo al rispetto della «par condicio».
Il 21 novembre i parlamentari radicali Lorenzo Strik Lievers, Sergio Stanzani, Paolo Vigevano, con Rita Bernardini e Lucio Bertè della Segreteria del Movimento e altri militanti, sul palco del Teatro Flaiano di Roma, presentano i loro corpi completamente nudi, nella drammatica magrezza di chi è in sciopero della fame da 37 giorni, per rappresentare così la «nuda verità» di quanto sta accadendo. Sono 59 i parlamentari di tutti i partiti (molti dei quali dichiarano di non essere d’accordo sul merito di alcuni o di tutti i referendum, ma di voler difendere ugualmente il diritto all’informazione denegato) che si uniscono per un giorno al digiuno dei loro colleghi.
Tuttavia, nonostante continui il silenzio e l’inerzia del Presidente della Repubblica sull’attentato ai diritti civili e politici dei cittadini, alla fine, il successo arriva: al termine dei tre mesi che la legge stabilisce per la raccolta, quasi 12 milioni di firme autenticate e certificate vengono consegnate alla Corte di Cassazione.

5.4 2001: Il presidente incatenato sul potere di grazia

Se sull'esternazione i Presidenti del Repubblica degli ultimi anni fanno strame del diritto, sul potere di grazia, da loro concesso dalla Costituzione, sono invece vittime di incredibili interferenze partitocratiche. L'articolo 87 della Costituzione stabilisce che il Presidente della Repubblica «Può concedere grazia e commutare le pene», e il successivo articolo 89 che «Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità».
In occasione della richiesta di grazia da parte di Ovidio Bompressi e di quelle avanzate in maniera trasversale da esponenti della politica e della cultura per Adriano Sofri, tra il 2001 e il 2006 si verifica un acceso conflitto di attribuzioni dei poteri tra l'allora Presidente Ciampi e il Guardasigilli Roberto Castelli. Per quest'ultimo la grazia non è una prerogativa autonoma del Capo dello Stato; nel 2001 respinge la prima domanda di grazia di Bompressi e si pone anche in netto contrasto con un'eventuale presa di posizione «spontanea» di Carlo Azeglio Ciampi in favore dell'assegnazione della grazia ad Adriano Sofri. I Radicali, Marco Pannella in particolare, si mobilitano per difendere la prerogativa del Presidente della Repubblica; devono contrastare, non solo una pesante campagna demagogica, ma anche gli Uffici legislativi e i collaboratori del Presidente Ciampi, segretario generale Gaetano Gifuni in testa. Un consigliere giuridico del Presidente arriva a scrivere, nel 2002, che «non esiste nel nostro ordinamento un potere autonomo del Capo dello Stato di concedere la grazia»: in pratica il Presidente si autoamputava di un proprio potere, contro la Costituzione.
Dopo 5 anni e mezzo dal suo inizio, la vicenda si conclude nel 2006, quando la Corte costituzionale stabilisce che il ministro della Giustizia non ha l'autorità di impedire la prosecuzione di un procedimento di grazia avviato dal Presidente della Repubblica. La Corte costituzionale riconosce dunque che i Radicali hanno ragione. La sentenza, tuttavia, viene emessa tre giorni dopo la scadenza del mandato presidenziale di Carlo Azeglio Ciampi, cui è stato di fatto impedito di esercitare il suo potere autonomo di grazia.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:19 | Message # 5
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Capitolo 6

PARLAMENTO: LA CAMERA DEI PARTITI

La vita del Parlamento come una cartina di tornasole dell’illegalità costituzionale repubblicana: dalla pubblicità dell’attività ai regolamenti «gruppocratici», dall’immunità/impunità di Regime alla decretazione d’urgenza come stravolgimento dei poteri.

6.1 Nel 1976 la voce dei politici esce dal Palazzo con Radio Radicale

L’articolo 64 della Costituzione afferma che le sedute del Parlamento «sono pubbliche», ma nella realtà dei fatti il precetto costituzionale rimane lettera morta per decenni. La pubblicità istituzionale è affidata alla sola stampa di poche centinaia di copie di resoconti stenografici o sommari delle sedute d’aula, da ritirare a pagamento presso la stamperia e quindi indirizzata essenzialmente ai notisti politici e ai singoli parlamentari. Solo nel 1976 l’emittente «Radio Radicale» inizia a trasmettere in diretta, senza autorizzazione e rubando il segnale dal circuito interno, i dibattiti delle assemblee di Camera e Senato, inaugurando anche il processo di archiviazione delle «voci» di deputati e senatori, con una sistematica catalogazione.
Un altro articolo della Costituzione che subisce gravi attacchi dalla «prassi» parlamentare e dalle previsioni regolamentari è l’art. 67 laddove si afferma che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Sulla spinta dei partiti e dei gruppi parlamentari, sia di maggioranza che d’opposizione, il ruolo del singolo parlamentare risulta mutilato: il Parlamento anziché luogo del dibattito e del confronto politico, si configura come mera sede di registrazione degli accordi e dei compromessi fra partiti, sindacati e forze sociali, maturati all’esterno delle istituzioni.

6.2 Il regolamento della Camera del ’71 e il potere ai partiti

Decisiva sul punto la vicenda dei regolamenti parlamentari. Nonostante il preciso dettato costituzionale dell’articolo 64: «ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti», la Camera in via implicita e il Senato in modo esplicito scelgono, come già fatto per l’Assemblea Costituente, la continuità con il regolamento parlamentare del 1900, e le successive modifiche fino al 1922. Solo nel 1971 la Camera si dota di un nuovo regolamento, che nasce con un impianto sul ruolo dei partiti e non dei deputati e fondato sull’unanimità della gestione dei procedimenti.
Nella gestione quotidiana del lavoro, si attribuisce ai Presidenti dei gruppi parlamentari poteri d’attivazione e di programmazione dei lavori che annichiliscono le prerogative del singolo parlamentare, mentre si registra il costante richiamo alle «prassi», alle consuetudini e alle convenzioni parlamentari che risulta fatto proprio contro la testualità del regolamento scritto. Ad esempio, nella delicatissima primavera del 1978 la Camera, nella rincorsa dei partiti a impedire i referendum, finisce per autorizzare contemporanee sedute dell’Aula e di commissioni in sede legislativa: nello stesso momento i parlamentari sono chiamati a votare la legge sull’aborto, la legge sui manicomi e le modifiche alla legge Reale, con la materiale impossibilità dei singoli di svolgere il proprio mandato. Sempre in quei giorni si registrano ripetuti richiami al Regolamento, in forza del 1° comma dell’art. 68 che riporta: «I disegni e le proposte di legge presentati alla Camera o trasmessi dal Senato, dopo l’annuncio all’Assemblea, sono stampati e distribuiti nel più breve termine possibile». Dopo giorni, il testo per la riforma del Codice di procedura penale (avanzato dal gruppo radicale) non è neppure annunciato all’Assemblea, mentre è depositato per essere valutato in abbinamento con il disegno di legge di riforma della legge Reale, che si sta discutendo in Commissione Giustizia.

6.3 Le violazioni del regolamento tra il 1979 e il 1983

Dai resoconti sommari della legislatura 1979–1983 si evince la testimonianza quotidiana delle violazioni del regolamento, tra cui spiccano almeno una trentina di casi in cui l’arbitrio è incontestabile e particolarmente grave: ad esempio l'art. 41 che dà l'assoluta priorità, nel dibattito, agli interventi per richiamo al regolamento, risulta sistematicamente disatteso dalla Presidenza, con episodi eclatanti come durante il caso D’Urso nella seduta del 13 gennaio 1981, con il tentativo dei parlamentari radicali di leggere in aula una lettera del giudice sequestrato al direttore de L’Avanti. Particolarmente presi di mira, con interpretazioni di comodo, gli articoli che garantiscono e regolamentano l’ammissibilità e l'illustrazione degli emendamenti durante il dibattito.
Venendo poi a mancare l’unanimità nella conferenza dei capigruppo, si aprono in aula costanti e vivaci dibattiti sull'ordine del giorno e quindi sul programma dei lavori, che un regolamento «gruppocentrico» non è attrezzato a risolvere. Sempre in quella stagione si registra l’aumento di frequenza delle espulsioni dall’aula e dalle commissioni: una decina in due anni, più l'espulsione di un gruppo parlamentare praticamente al completo. Espulsioni basate sull'art. 59 (insulti) interpretando come ingiurie i commenti politici critici fatti al microfono dell’oratore, senza registrare invece gli attacchi fatti dai deputati contro chi interviene, mentre la stessa Presidenza della Camera definisce «sceneggiata» (9 gennaio '81) la battaglia politica di una parte. Con puntigliosi richiami al regolamento e la pratica dell’ostruzionismo parlamentare, in realtà si tenta di indurre il Parlamento a svolgere al meglio la sua funzione, cioè ad approvare riforme vere, in alcuni casi attese da lustri (come quella sui codici fascisti) anziché improvvisare leggi pasticciate al solo scopo di impedire lo svolgimento dei referendum.
Nei primi 15 mesi di presenza dei radicali in Parlamento, si registrano oltre 900 interventi dei deputati radicali, di cui 160 di soli richiami al rispetto del regolamento. Come reazione, nel 1981 viene approvata una prima riforma del regolamento della Camera che limita i tempi d’intervento dei parlamentari e riduce la programmazione concordata all'unanimità all'interno della conferenza dei capigruppo. La controriforma del regolamento passa nonostante i 50.000 emendamenti presentati dai radicali e, fra questi, alcuni fortemente innovativi come quelli che, sul modello del Parlamento britannico, propongono il question-time o quelli volti a stabilire i diritti dell’opposizione e un ruolo nuovo al Governo nei rapporti con l’Assemblea.
L’ultima riforma dei regolamenti parlamentari, approntata nel 1997 ed entrata in vigore all’inizio del 1998, sembra voler concludere un percorso molto lungo di trasformazione delle regole (1983 – 1986 – 1988 – 1990), ma l’attuale regolamento non rispecchia i meccanismi derivanti dall’impostazione maggioritaria della legge elettorale: di nuovo si ha un regolamento scritto che vive di prassi consolidate e interpretazioni. Ad esempio, si affida una posizione centrale nella programmazione dei lavori al Presidente della Camera, oltre che ai presidenti dei gruppi e si riconosce al Governo la facoltà di esprimere le proprie indicazioni e priorità, ma ciò è stravolto dal ricorso alla decretazione d’urgenza, abbinata alla richiesta del voto di fiducia. Ad esempio, nello scorcio di questa XVI legislatura, la Camera approva 58 leggi - 55 d’iniziativa governativa e 33 di conversione di decreti legge - 12 delle quali assicurate e blindate con il voto di fiducia: in un Parlamento in cui la maggioranza è peraltro numericamente molto forte.

6.4 Immunità parlamentare e impunità di regime

Le previsioni costituzionale degli articoli 68 e 96 sono introdotte nella Carta, per costruire un sistema di prerogative e di garanzie per i parlamentari e i membri del Governo, allo scopo di garantire il corretto funzionamento degli organi istituzionali. Per i costituenti si tratta di riconoscere un principio di indipendenza del parlamentare come massima garanzia dell’Assemblea stessa. L’irresponsabilità giuridica diventa un necessario completamento dell’irresponsabilità politica, ossia serve ad evitare che il principio dell’irresponsabilità politica – e quindi la piena e insindacabile libertà di opinione – non venga violato surrettiziamente, utilizzando illegittimamente il canale giudiziario per colpire un parlamentare a motivo delle opinioni espresse e del lavoro svolto in Parlamento.
L’insindacabilità è da riferirsi solo agli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni strettamente parlamentari e l’immunità può essere fatta valere solo per prevenire eventuali interferenze sulla loro regolarità. Nel disegno costituzionale, dunque, i parlamentari non godono di una posizione di privilegio personale, ma soltanto delle conseguenze individuali di garanzie che riguardano l’intera Assemblea parlamentare come istituzione. L'art. 96 disciplina, invece, la procedura per i reati commessi dai membri del governo: lo scopo di tutelare l'esecutivo da persecuzioni politiche immotivate e mascherate e prevedere nello stesso tempo giustizia severissima per i reati ministeriali. Le disposizioni costituzionali vengono applicate con la legge 10 maggio 1978 n. 170 e dal regolamento parlamentare dei procedimenti di accusa. L’abuso dello strumento in garanzia di impunità si materializza in numerosissimi casi eclatanti assurti alle cronache: «traghetti d’oro», «carceri d’oro», «lenzuola d’oro», «autostrade d’oro»… fino ad arrivare ai casi «Giannettini» e «P2».
La Commissione inquirente funziona regolarmente per «assolvere» parlamentari e ministri: l’unico caso di processo per i reati ministeriali giunto a sentenza è il caso Lockheed, dove la portata dello scandalo è tale per cui la Commissione, assediata dall'opinione pubblica, non può insabbiare. Nelle sole legislature VIII e IX sono 140 i casi di procedure: tutte archiviate, 26 di queste con il voto dei 4/5 dei commissari tale da non esigere neppure la ratifica pubblica dell’ aula; per 6 procedure trascorrono inutilmente i termini della denuncia o muore l'inquisito e per 9 la commissione si dichiara incompetente. Saranno i casi Negri–7 aprile e Tortora a far esplodere la questione delle prerogative abusate: in particolare la campagna, politica e referendaria, per la «Giustizia Giusta» comprende anche l'abolizione della Commissione inquirente.
L'8 e il 9 novembre 1987 si vota su cinque referendum, quello contro la Commissione inquirente registra l’85% di «Sì». La legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 riforma il complesso delle norme, pone fine alla giurisdizione della Corte costituzionale sui reati ministeriali e sopprime la Commissione inquirente, competente a giudicare i reati commessi dai ministri. A ciò segue l’abolizione dell’istituto della messa in stato di accusa di ministri ed ex ministri da parte del Parlamento, con il conseguente affidamento del perseguimento dei reati ministeriali all’autorità giudiziaria ordinaria, sia pure con un apposito organo (Tribunale dei ministri) e attraverso una speciale procedura.
Durante Tangentopoli si registra una violazione degli assetti istituzionali di segno opposto: Ministri e Sottosegretari sono di fatto costretti alle dimissioni da semplici avvisi di garanzia che, da strumento di tutela del singolo cittadino, si trasformano in strumenti che modificano la composizione del Governo del paese. Il Governo di Giuliano Amato nel 1993 vede vari ministri dimessi a seguito di un avviso di garanzia, fra questi Claudio Martelli (10 febbraio), Francesco De Lorenzo e Giovanni Goria (il 19 febbraio), Gianni Fontana (21 marzo). Il Presidente della Repubblica accetta le dimissioni così motivate, nonostante le proteste dei radicali.
Nel luglio 2007, il Parlamento ha approvato, a tempo di record, un disegno di legge riguardante l'immunità giudiziaria delle quattro principali cariche dello Stato. In soli 25 giorni è passato al vaglio ed all’approvazione delle commissioni di Camera e Senato: in particolare, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Presidente della Camera e del Senato non sono perseguibili penalmente e civilmente dalla giustizia finché restano in carica. L'immunità decade se la persona si dimette, e non è cumulabile con l'elezione di cariche diverse da quelle con cui si è stati eletti; in pratica, qualora un ipotetico Presidente del Consiglio fosse indagato, e successivamente venisse eletto Presidente della Repubblica, l'immunità non esisterebbe.

6.5 Decretazione d’urgenza e stravolgimento dei poteri tra esecutivo e legislativo

Grande discussione dedica l’Assemblea Costituente alla previsione o meno della decretazione governativa. Dopo l’esperienza del regime fascista, molte sono le preoccupazioni nel definire gli equilibri fra i poteri. I Costituenti decidono di ribadire più volte, negli articoli 70 e 76 che la funzione legislativa spetta, solo e soltanto, alle Camere e che non può essere delegata al Governo, se con precisi vincoli, su definiti temi, per un tempo limitato. Il Governo può eccezionalmente adottare, sotto la propria responsabilità, provvedimenti provvisori con forza legge, ma solo in casi straordinari di necessità e urgenza, precisi e motivati.
L’abuso dello strumento e lo stravolgimento degli equilibri fra organi costituzionali si manifesta in modo sempre più evidente: dai 31 emanati nella prima legislatura (1948-1953), di cui 30 convertiti in legge ed 1 decaduto, si arriva ai 669 emanati nella dodicesima legislatura, per altro breve (1994-1996) di cui solo 121 convertiti (di questi solo 30 senza modificazioni) ma con ben 538 decaduti, 10 direttamente respinti e 88 lasciati pendenti. Una vera e propria escalation: 60 decreti nella II, 30 nella III, 94 nella IV, 69 nella V; con un’esplosione dagli anni ’70, accanto all’aumento del numero di decreti emanati, aumentano anche il numero dei decaduti 126 nella VI, 166 nella VII, 260 nella VIII, 306 nella IX, 433 nella X (decaduti 231, respinti 15, 17 pendenti a fine legislatura), 477 nella XI (decaduti 351, respinti 8, pendenti 66), 669 nella XII, come si è già detto.
Dopo 30 anni, con la sentenza n. 302 del 1988, la Corte costituzionale interviene rivelando che l’insistita reiterazione dei decreti-legge configura una violazione delle competenze delle Regioni, ma una svolta si registra solo con la sentenza n. 360 del 1996, nella quale la Corte dichiara l’illegittimità della 17° reiterazione di un decreto sui rifiuti, provocando un’inversione di tendenza: sono infatti 370 i decreti emanati, 82 convertiti – 30 con modificazioni - 182 decaduti, 6 respinti, 9 pendenti; 216 nella XIV, 48 nella XV. Nella legislatura in corso siamo a 34 decreti in 11 mesi. La Corte di fronte al perdurare dell’abuso – non solo quantitativo - della decretazione di urgenza con la più recenti sentenze nn. 171/2007 e 128/2008 dichiara incostituzionali le leggi di conversione dei decreti legge prive ab origine dei presupposti di «necessità e urgenza».
A corollario della limitazione dell’utilizzo della decretazione d’urgenza operata dalla Corte, attraverso un sindacato di legittimità sempre più penetrante, vi è l’aumento dell’utilizzo della delegazione legislativa di cui all’art. 76 della Costituzione. Anche nell’utilizzo di questo strumento normativo si assiste allo svuotamento della funzione legislativa del Parlamento in favore dell’esecutivo, in quanto i «principi e criteri direttivi» - sulla cui esclusiva base è possibile delegare la funzione legislativa - spesso sono di una tale vaghezza da non costituire alcun serio ostacolo alla discrezionalità del governo in merito alla disciplina legislativa da adottarsi.
A completamento della dinamica che vede il governo come vero dominus dell’azione legislativa, si sottolinea come l’utilizzo combinato della decretazione d’urgenza – spesso in forza di presupposti opinabili – e della questione di fiducia sul disegno di legge di conversione del decreto (al solo fine di compattare la maggioranza e rendere impossibile l’emendabilità) ha finito con lo spogliare l’attività parlamentare d’ogni autonomia rispetto ai desiderata del Governo.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:20 | Message # 6
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Capitolo 7

GLI ANNI ‘70: LA RIVOLUZIONE DEI DIRITTI CIVILI

Obiezione di coscienza al servizio militare, divorzio, aborto, voto ai diciottenni, diritti dei transessuali, depenalizzazione delle droghe: il movimento radicale e referendario dei diritti civili ottiene importanti conquiste sociali già dalla fine degli anni ’60. E potrebbe dilagare. Eutanasia, abolizione del Concordato, abolizione dei manicomi, diritti delle persone omosessuali: le «riforme tabù» di oggi erano già mature 30 anni fa.

7.1 Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza e l’abolizione dei Tribunali militari

Il riconoscimento legislativo dell’obiezione di coscienza viene introdotto in Italia dopo che per vent’anni gli obiettori, con i radicali in prima linea, affrontano detenzioni, processi e condanne per affermare il principio morale civile o politico di non collaborare con gli eserciti. Dall’arresto dei fratelli Strik Lievers nel ’66 alla lunga carcerazione di Roberto Cicciomessere, vice-segretario del Pr, e di molti altri obiettori, è solo grazie a questa lotta che si arriva nel 1972 alla legge sull’obiezione di coscienza (la cosiddetta «Legge Marcora») che, pur mantenendo alcune discriminazioni superate solo successivamente, permette di optare per il servizio civile sostitutivo obbligatorio. La lotta per l’obiezione di coscienza è anche lotta contro l’incostituzionalità dei tribunali militari. Con la legge 180 del 7 maggio 1981 viene approvata una profonda riforma dell'ordinamento giudiziario militare di pace, che assimila i tribunali militari a quelli ordinari, sottoponendoli sostanzialmente alla stessa disciplina.
Durante il processo a Cicciomessere la difesa eccepisce l’incostituzionalità dei Tribunali militari. L'istituzione giudiziaria militare è infatti espressione di un più generale atteggiamento di resistenza nei confronti della Costituzione. Inoltre il diritto civile all'obiezione di coscienza non è ancora riconosciuto nell’ordinamento giuridico, a differenza di quanto accade negli altri paesi democratici. Questa situazione determina la violazione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Il procedimento penale, originato dalla disobbedienza civile di Cicciomessere e degli altri radicali, diviene «processo alla legge», pubblica denuncia dello «scandalo» di un vulnus al dettato costituzionale.
Le disobbedienze civili di massa condizionano in maniera decisiva l’attività parlamentare. L’azione radicale si pone sempre come «urgenza» e «necessità» rispetto all’immobilismo del legislatore. Avendo come riferimento la scala dei valori e degli interessi tutelati e riconosciuti dal nostro ordinamento, essa esprime la necessità di assicurare i valori fondamentali riconosciuti dalla Costituzione. In questo senso, La disobbedienza civile cessa di essere resistenza al potere, per divenire iniziativa politica democratica.
In seguito, altri due segretari radicali Jean Fabre e Olivier Dupuis – entrambi belgi – saranno processati e condannati nel loro paese, fino all’estensione completa del diritto all’obiezione nell’ambito europeo.

7.2 Aborto, da reato di massa a legge dello Stato. Come evitare i referendum

Fino al 1978, in Italia l’aborto è considerato un reato, punito dal codice penale fra i «Delitti contro la integrità e la sanità della stirpe». All’inizio degli anni ’70, gli aborti clandestini sono un fenomeno assai diffuso (alcune stime registrano da uno a due milioni di casi all’anno) e la questione si pone ormai come un problema sociale e di massa. Già dal 1973 l’aborto diventa un tema centrale nell’azione politica dei Radicali, che insieme al Movimento per liberazione della donna (Mld) promuovono azioni di disobbedienza civile.
Nell’autunno del ’74 Adele Faccio annuncia la costituzione del «Centro informazione sterilizzazione e aborto» (Cisa) con sede a Milano e consultori in tutta Italia, dove si pratica l’aborto a titolo praticamente gratuito. Questa disobbedienza civile prosegue per circa un anno, fino al 9 gennaio 1975, quando i carabinieri fanno irruzione in una clinica di Firenze, arrestando il ginecologo Giorgio Conciani e i suoi assistenti e denunciando le oltre 40 donne presenti. Il 13 gennaio viene arrestato il segretario del Pr, Gianfranco Spadaccia, successivamente saranno arrestate Adele Faccio ed Emma Bonino.
Il 18 febbraio la Corte costituzionale dichiara parzialmente illegittima la norma penale che punisce il procurato aborto. Il 25 marzo in tutta Italia i Carabinieri interrogano gli autori delle auto-denunce, violando il codice di procedura e il diritto alla difesa. Il 15 aprile parte in tutta Italia la raccolta delle firme. Si riescono a raccogliere per la prima volta le firme necessarie, che alla fine saranno 750.000. In ottobre il Cisa ha sedi sparse in molte città italiane. Loris Fortuna rassegna le dimissioni da deputato, in polemica con il compromesso Dc-Pci sull’aborto. Il 25 febbraio ‘76 Emma Bonino presenta il bilancio di un anno di attività del Cisa: sono stati eseguiti 10.141 interventi. Nei mesi di settembre e ottobre dilaga la campagna di disobbedienza civile in tutta Italia, con interventi pubblici di aborto.
Con le elezioni anticipate nel ’76, il referendum slitta al ’78, insieme agli altri quattro sopravvissuti – degli 8 presentati – al giudizio della Corte costituzionale: Commissione inquirente, legge manicomiale, finanziamento dei partiti e legge Reale (ordine pubblico). Per evitare a tutti i costi lo scontro sull’aborto, viene varata a maggio la legge 194, frutto di un compromesso fra Dc e Pci. Questo partito è il vero «padrino» della legge, che contiene alcune pesanti limitazioni. In cambio di queste restrizioni, alcuni parlamentari Dc si assentano al momento del voto, per garantire l’approvazione. I deputati radicali votano contro, reclamando una legge più liberale, fondata sul principio di autodeterminazione della donna, che ispirerà il referendum abrogativo parziale del 1981.
I Radicali votano contro anche la nuova legge 180 sui trattamenti psichiatrici, concepita assai più nella fretta di evitare il referendum che per un autentico impegno riformatore. Nel motivare la sua opposizione, Pannella prevede facilmente che i malati si ritroveranno abbandonati a se stessi e alle famiglie. La Commissione inquirente, grande insabbiatrice di scandali per lunghi decenni, è fatta oggetto di una pseudo-riforma puramente nominale, che ne lascia sostanzialmente intatto l’impianto. Per approvare tutte queste leggi in così poco tempo, le Commissioni parlamentari si riuniscono in sede legislativa contemporaneamente all’Aula, rendendo fisicamente impossibile la presenza dei soli quattro deputati radicali.

7.3 Le riforme di liberazione sessuale «GLBT»

All’inizio degli anni ’70, alle persone omosessuali è negata la dignità, la piena cittadinanza, spesso la stessa possibilità di vita, se non a costo di auto-censura, negazione e inganno. La questione omosessuale assume una dimensione pienamente politica durante il congresso radicale di Milano del novembre ‘74, quando il Fuori! (il primo movimento organizzato degli omosessuali) e il Pr sottoscrivono un patto federativo. Con questa decisione, milioni di italiani senza volto possono riconquistare la propria identità in tutte le sedi del Partito radicale, che diventano le sedi anche del movimento.
Inizia così una storia tanto ricca di iniziative quanto misconosciuta o dimenticata, volta al riconoscimento di fondamentali diritti civili e sociali. La presentazione nel 1976 - per la prima volta al mondo in elezioni politiche nazionali - di candidati esplicitamente omosessuali, e la loro elezione. La manifestazione a difesa degli omosessuali nei paesi in cui l’omosessualità è punita con il carcere o con la morte: Pezzana a Mosca nel ‘77, Francone a Teheran nel ‘79 e di nuovo a Mosca nell’80. Le numerose iniziative in sede Onu e Ue che vedono i Radicali impegnati a garantire l’accesso alle istituzioni dei rappresentanti delle organizzazioni GLBT. Infine, la prima legge italiana di riconoscimento delle persone transessuali (164/1982).

7.4 La depenalizzazione del consumo personale di droghe

Fin dalla metà degli anni ‘60 i Radicali si occupano del problema della diffusione delle droghe illegali, proponendo di governare e di regolamentare il fenomeno. Dalle «contro-inaugurazioni» dell’anno giudiziario del ’65, in cui denunciano in tutte le procure della Repubblica il fallimento del proibizionismo, al convegno su «Libertà e droga» del ‘72, alla lettera di Marco Pannella al Messaggero dopo l’arresto di 17 giovani romani accusati di aver fumato hashish, tutta la politica radicale – comprese le disobbedienze civili che ne contrassegnano la storia fino ai nostri giorni – è finalizzata alla richiesta di un grande dibattito pubblico per favorire decisioni democratiche e consapevoli intorno alle leggi in vigore.Di fronte all’immobilismo delle forze politiche e ai veti incrociati che ne impediscono l’azione parlamentare, mentre migliaia di giovani finiscono in galera per aver consumato sostanze stupefacenti, il 2 luglio 1975 Marco Pannella annuncia, con un telegramma alle forze ordine, che di lì a poche ore fumerà pubblicamente uno «spinello» e che denuncerà per omissione d’atti d’ufficio poliziotti e magistrati che non intervengano. Pannella finisce in carcere per due settimane, dichiarando che non firmerà per la libertà provvisoria fino a che il Parlamento non avrà calendarizzato la discussione delle diverse proposte di legge da tempo depositate. I presidenti delle Camere acconsentono all’apertura del dibattito sul tema e, nel giro di pochi mesi, nel dicembre del ‘75, è approvata una legge che distingue lo spacciatore dal consumatore, depenalizzando l’uso di alcune sostanze.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:22 | Message # 7
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Capitolo 9

LA BANCAROTTA DELLO STATO ITALIANO

Le lontane origini negli anni ’70 e ’80 del dissesto economico e finanziario, solo in parte frenato dall’adesione dell’Italia all’Eurozona. L’inesorabile crescita del debito pubblico, la mancanza delle riforme, la politica clientelare dei partiti, le scelte conservatrici e corporative del padronato e dei sindacati.

9.1. Il tradimento dei vincoli costituzionali di bilancio

Il «monopartitismo imperfetto» del regime italiano diviene subito evidente e si perfeziona soprattutto nella gestione consociativa e corporativa, contro Costituzione, del debito e della spesa pubblica. Secondo Giovanni Sartori, «almeno 3/4 della legislazione italiana tra il 1948 e il 1968 è stata approvata anche dai comunisti». Lo stesso Giuliano Amato, nel ‘76, riflettendo sulla «società italiana degli ultimi 15 anni», afferma che «il modulo spartitorio non è interno al blocco di potere democristiano, ma opera più largamente, coinvolge anche le altre parti sociali e politiche». Infatti, già a partire dal ’59, quasi tutte le leggi di spesa sono adottate, per decisione unanime, in Commissione in sede legislativa (come nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni, dove rappresentava la regola). Solo dal 1976, quando in Parlamento arriva la pattuglia radicale, l’informazione sui lavori di commissione, la conoscenza e il dibattito sull’uso delle risorse pubbliche - negati all’opinione pubblica e allo stesso Parlamento - il rigore e il rispetto delle procedure di bilancio diventano dato centrale del confronto politico e parlamentare.
Il dissennato uso clientelare della spesa pubblica e i bilanci della partitocrazia - non solo il bilancio dello Stato ma anche i bilanci dei partiti, delle organizzazioni sindacali, delle Regioni eccetera - giocano un ruolo determinante nelle dinamiche di crescita del debito pubblico.
L’articolo 81 della Costituzione, che Luigi Einaudi definisce un «baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore costituente, allo scopo di impedire che si facciano maggiori spese alla leggera, senza avere prima provveduto alle relative entrate», viene subito attaccato e superato dal «monopartitismo» del debito e della spesa pubblica (e del finanziamento pubblico).
Nel 1966, la Corte costituzionale consente «la possibilità di ricorrere, nei confronti della copertura di spese future, oltre che ai mezzi consueti, quali nuovi tributi o l'inasprimento di tributi esistenti, la riduzione di spese già autorizzate, l'accertamento formale di nuove entrate, l'emissione di prestiti e via enumerando, anche alla previsione di maggiori entrate», autorizzando di soppiatto, e poi apertamente a partire dai primi anni ’70, lo scavalcamento del dettato costituzionale. La legislazione di spesa affida la copertura all’emissione e al collocamento dei titoli di debito pubblico da parte del Tesoro, con la formula, destinata a divenire di rito, di chiusura della legge: «Il ministro del Tesoro è autorizzato ad apportare al bilancio le variazioni occorrenti per il finanziamento della presente legge». La denuncia di incostituzionalità da parte della Corte dei Conti rimane inascoltata.
Il colpo decisivo ai vincoli costituzionali di bilancio lo assesta l’introduzione nel ‘78 della legge finanziaria e del bilancio pluriennale. Con lo strumento della finanziaria si riesce, per utilizzare le parole profetiche di Einaudi, a «girare l’articolo 81, osservandolo nell’apparenza e violandolo nella realtà», violando cioè il divieto di stabilire cumulativamente nuove entrate e nuove spese riunendole in un testo di legge che cammina in parallelo alla legge di bilancio. Inoltre, con l’introduzione del bilancio pluriennale, si condizionano le future annualità con impegni certi di spesa, a fronte di entrate non ancora certe. Si contribuisce così alla dinamica nota come «ciclo elettorale di spesa» e si alimenta il circolo vizioso «pressione clientelare - spesa pubblica - deficit - debito - rafforzamento della partitocrazia - aumento dell’imposizione fiscale».
L’evasione fiscale pone l’Italia al primo posto, non tanto dei paesi Ue o Ocse, ma sul piano mondiale, compresi i paesi in via di sviluppo e i paesi emergenti. Secondo le diverse e più recenti stime, in Italia si evade un importo compreso tra 100 e 200 miliardi di euro all’anno. Si tratta di gettito tributario sottratto, non base imponibile sottratta, quindi sono davvero entrate tributarie che mancano ogni anno alle casse dello Stato, e sono tali da – se recuperate pure solo in parte - rendere non necessarie manovre finanziarie per qualche anno!
Oltre alla dimensione dell’evasione, v’è anche l’implicazione che essa comporta sull’equità del sistema tributario. L’articolo 53 della Costituzione, che stabilisce il pagamento delle imposte in ragione della «capacità contributiva» di ciascuno e secondo «criteri di progressività», è disatteso. L’imposta sul reddito delle persone fisiche è pagata solo dai lavoratori dipendenti e dai pensionati e, attraverso l’Ire (ex Irpef), la progressività agisce solo sui redditi da lavoro e da pensione, visto che quelli da capitale, da professione, da lavoro autonomo e da patrimonio riescono a sottrarsi in larga parte alla tassazione. I referendum radicali per l’abolizione del sostituto di imposta presentati nel ’94 e nel ’99 sono, in entrambi i casi, dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale.

9.2 L’evoluzione spaventosa del debito pubblico e il dissanguamento da interessi passivi

Nel secondo dopoguerra, grazie alle politiche inaugurate e sostenute da Luigi Einaudi, si consegue un drastico ridimensionamento del debito che scenderà progressivamente fino al 1964 (media 1947 – 1964: 39.6%).
Negli anni ‘70 si assiste a una sua progressiva e inesorabile crescita. Dal 1970 al 1979 il debito passa da 14,3 miliardi (di euro) a 98,6 miliardi: un aumento di quasi il 700 per cento. Il balzo è evidente anche se – più correttamente – si considera il rapporto tra il debito e il prodotto interno lordo, che passa dal 40,5% del 1970 al 60,6% nel 1979.
La crescita spaventosa del debito continua negli anni ’80: dai 118 miliardi (di euro) del 1980 ai quasi 600 miliardi nel 1989. Conseguentemente il rapporto tra il debito e il prodotto lordo passa dal 58% del 1980 al 93,1% del 1989. Successivamente si ha sì una decelerazione del tasso di crescita del debito, ma non tale da impedire l’emblematico «sfondamento» dei mille miliardi nel 1994, con il rapporto debito/Pil che arriva al massimo storico (121,5%).
Le misure adottate per rientrare nelle condizioni di adesione all’eurozona favoriranno certamente una decrescita (113,7% nel 1999, 108,7% nel 2001 e 103,7% nel 2004) ma troppo contenuta per un reale risanamento dei conti pubblici. Sicuramente molto distante dalle politiche virtuose seguite da altri paesi, in particolare dal Belgio.
Negli ultimi anni, assistiamo a un «galleggiamento» intorno al 105%, ma l’enorme volume già accumulato porta comunque ad aumentare il totale del debito, fino a raggiungere la cifra record di 1.596,7 miliardi di fine 2007 (103,5% del Pil) e di circa 1.664 miliardi a fine 2008 (105,8%).
Nei primi due mesi del 2009, il già stratosferico debito pubblico aumenta di ben 44 miliardi di euro sfondando il muro dei 1.700 miliardi, il che già fa prevedere un nuovo balzo nel 2009 del rapporto debito/Pil a oltre il 110%. Ogni nuovo nato che viene al mondo in Italia è già gravato di un debito di quasi 28.500 euro.
Il volume totale degli interessi passivi che l’Italia deve pagare per onorare il proprio debito pubblico assume dimensioni gigantesche. Nel trentennio che va dal 1979 al 2008 il totale degli interessi pagati espressi in euro 2008 ammonta a circa 2.740 miliardi di euro. Nel solo 2008, per interessi passivi sul volume del debito, lo Stato italiano spende 81 miliardi, pari al 5,15% del Pil, ma se si considera l’intero trentennio, l’incidenza degli interessi sul Pil è del 7,7%. Una tassa salatissima, e solo per pagare oneri finanziari maturati, non a fronte di prestiti necessari per sostenere investimenti, bensì per finanziare una spesa corrente spesso di tipo clientelare e di «regime».

9.3 Cassa integrazione straordinaria, un altro caso di «privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite»

Il disegno originario della Cassa integrazione guadagni è chiaro e ben definito: strumento di garanzia del reddito dei lavoratori in costanza di rapporto, da attivare quindi a tempo determinato (massimo tre mesi) per cause transitorie e involontarie, limitatamente a eccedenze temporanee e non definitive. Questo assetto viene ben presto stravolto dal regime consociativo dei partiti di maggioranza e opposizione, dei sindacati confederali e delle grandi famiglie confindustriali. La magistratura funge da perfetta interfaccia di questo regime.
Il requisito della transitorietà viene minato già nel ’64, l’estensione del campo di applicazione della Cassa è continua e culmina nel ’68 nell’istituzione dell’intervento straordinario; ma tutto ciò si rivela inadeguato a fronteggiare le crisi occupazionali, ma soprattutto la fame atavica di aiuti di Stato di Fiat, Alfa Romeo, Olivetti… al punto che nel ‘72 si elimina del tutto il requisito della transitorietà, rendendo possibile la concessione di proroghe senza limiti di tempo. L’introduzione nel ‘75 della crisi di mercato tra le cause integrabili ordinarie è poi il tipico esempio di ratifica legislativa di una «prassi» consolidata. Nel ’77 si introduce una nuova ipotesi di causa integrabile, quella della «crisi aziendale di particolare rilevanza sociale», una fattispecie omnibus alla quale vengono ricondotti i «fatti» più disparati. Subito dopo anche il fallimento diviene causa integrabile e, anno dopo anno, si assiste alla proliferazione incontrollata di interventi settoriali e fattispecie speciali di erogazione del trattamento straordinario.
Nel ’91, la legge 223 tenta di mettere ordine nella materia, ma fallisce i due obiettivi dichiarati, quello di destinare la cassa integrazione straordinaria solo ai lavoratori temporaneamente eccedenti e quello di arginare l’abuso di uno strumento tanto costoso per le casse dello Stato, quanto inutile al fine di salvare posti di lavoro. Negli anni successivi, si afferma al contrario la prassi amministrativa di concedere un periodo di integrazione salariale straordinaria, per lavoratori che già si sa essere in esubero, in palese violazione di legge e nell’assoluta assenza di sanzioni. In linea di massima, la giurisdizione si limita al controllo sulla regolarità delle procedure, senza entrare nel merito della effettiva sussistenza della causa integrabile, giustificativa dell’intervento straordinario.
In realtà su tutti i fronti – legislazione, amministrazione, giurisdizione – si procede con il metodo dell’emergenza: un’emergenza cercata e mantenuta per assicurare i massimi margini di discrezionalità. Il risultato è una spesa completamente fuori controllo: solo nel periodo 1977-2002 lo Stato destina alla Cassa, al netto dei contributi da aziende e dipendenti, 250mila miliardi di vecchie lire, senza che un solo posto di lavoro sia salvato. Negli anni Duemila l’istituto registra un consistente attivo, ma alla distorsione «storica» se ne aggiunge una non meno grave: la Cassa integrazione delle grandi imprese decotte, sempre regolarmente accontentate dai governi, viene pagata in gran parte dalle altre imprese, quelle più piccole e competitive, che pur contribuendo in modo decisivo a finanziare l’istituto raramente ottengono di accedervi. In questo modo, si ha una distrazione grave di risorse dalla parte sana del sistema produttivo a quella malata, e un sistema di tutela contro la disoccupazione involontaria, basato sul massimo di favore per le grandi imprese e sul completo disinteresse per le imprese più piccole e per i loro dipendenti: un vero e proprio mercato politico delle tutele, secondo l’impietosa definizione di Massimo D’Antona.
Per porre fine al sistema della cassa integrazione straordinaria e creare i presupposti per una riforma degli ammortizzatori sociali equa, di tipo universalistico, i Radicali promuovono nel 1994 un referendum popolare. La raccolta delle firme si conclude con successo, ma la Corte costituzionale l’anno dopo boccia il referendum per «la lunghezza e l'estrema complessità del quesito». L’ennesima sentenza adottata in base a criteri ulteriori, rispetto a quelli previsti dall’art. 75 della Costituzione. I cittadini italiani, «incapaci» di capire, vanno messi sotto tutela. Tutelato è, invece, il potere dei partiti, dei sindacati e delle grandi imprese.

9.4 La «sindacatocrazia», l’altra faccia della partitocrazia

L’articolo 39 della Costituzione stabilisce che «l’organizzazione sindacale è libera» e senza «altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali», ma a condizione che «gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.» Ogni organizzazione democratica si basa sulla periodica e regolare verifica del consenso dei propri associati, che devono essere liberi di aderire o recedere in qualsiasi anno. La mancata attuazione dell’articolo 39 ha comportato anche la negazione di questo elementare principio. Per l’automaticità del rinnovo e macchinosità della disdetta, in molti o non riescono a disdire o nemmeno ricordano di essersi iscritti al sindacato, magari da molti anni.
Negli anni ‘90 il movimento radicale tenta la via del referendum abrogativo. Il voto del ‘95 registra il raggiungimento del quorum (57,1%) e la vittoria dei «Sì» (56,2%) che cancella la norma dello Statuto dei lavoratori che prevede l’obbligatorietà delle trattenute per l’iscrizione al sindacato. La volontà popolare viene però truffata dalle «parti sociali», che si accordano per riprodurre nella contrattazione collettiva le norme abrogate: il sistema resta sostanzialmente immutato, e il referendum è come se non si fosse tenuto. Nel voto della primavera del 2000, questa volta per cancellare le trattenute per i pensionati, il referendum non raggiunge il quorum (32,2% di votanti, 61,8% di «Sì»), perché centro-sinistra, centro-destra e sindacati si associano in una martellante campagna mediatica a favore dell’astensione, alla quale non viene data un’effettiva possibilità di replica. Il sistema delle trattenute automatiche resta in piedi e continua a fruttare alle confederazioni sindacali – tra lavoratori attivi e pensionati – oltre un miliardo di euro ogni anno.
I Radicali cercano di intervenire anche sui Patronati sindacali con referendum abrogativi, i cui esiti sono gli stessi registrati in occasione delle trattenute automatiche. I Patronati portano alle casse del sindacato circa 350 milioni di euro ogni anno e, sommando i 225 milioni di euro che affluiscono dai Centri di assistenza fiscale, si arriva ad oltre due miliardi di euro ogni anno. A questi dati vanno aggiunte le immense proprietà immobiliari dei sindacati, il cui valore reale è impossibile quantificare, non avendo il sindacato un bilancio consolidato. Si tratta comunque di centinaia di migliaia di metri quadrati di immobili, ricevuti in regalo dallo Stato nel 1977 e per di più, dal 1992, esentati dal pagamento dell’Ici.

9.5 Pensioni, cartina di tornasole della determinazione dell’Italia a non risanare i conti pubblici

Nella storia della Repubblica, nessun Governo si dimostra in grado di affrontare il problema delle pensioni che ha costi enormi per lo Stato e contribuisce fortemente all’aggravamento del debito. Almeno fino al ‘92, quando Giuliano Amato vara, con il sostegno della Lista Pannella, le prime riforme in un quadro di assoluta emergenza finanziaria. Da quel momento si susseguono gli interventi in materia (Dini 1995, Maroni 2004, Prodi 2007) connotati tutti da un denominatore comune: scaricare il peso degli interventi sulle legislature successive e sulle generazioni più giovani, per salvaguardare gli interessi corporativi e i privilegi difesi innanzitutto dai sindacati.
Già nel gennaio 1983, Marco Pannella intraprende uno sciopero della fame e della sete con l’obiettivo di assicurare immediatamente un sostanziale incremento delle pensioni minime, a cominciare dalle pensioni sociali, che la proposta radicale mira a elevare da 165.550 lire mensili ad almeno 300.000. Nell’agosto 1983, all’inizio della nuova legislatura, gli eletti radicali presentano - subito dopo il discorso programmatico del Presidente del Consiglio Bettino Craxi - una vera e propria mozione di fiducia alternativa, che vede la questione delle pensioni tra i punti centrali: il sistema partitocratico muove per le pensioni integrate al minimo (in modo indiscriminato, con interventi a carattere puramente assistenziale) 20.000 miliardi ogni anno per interessi elettorali e clientelari, mentre l’intervento proposto – destinato solo a chi ne ha veramente bisogno – richiederebbe circa 1.500 miliardi. Lo scandalo provocato dai dati forniti dai Radicali porta, nel giro di due anni, al raddoppio delle pensioni minime.
Nel ‘99, allo scopo di superare le gravi carenze della riforma Dini, i Radicali promuovono un referendum sulle pensioni di anzianità, che nel gennaio 2000 la Corte costituzionale dichiara inammissibile.
Nel 2006 i parlamentari radicali presentano una proposta di legge (aggiornata e di nuovo depositata nel 2008) per innalzare gradualmente l’età pensionabile per tutti, uomini e donne, a 65 anni. Secondo i calcoli dell’Inps, la riforma radicale porterebbe a risparmiare, a regime, oltre 7 miliardi di euro all’anno, quanto basta per riformare il sistema degli ammortizzatori sociali e per adottare politiche di «welfare to work». La proposta viene completamente censurata dai media e ignorata da partiti e sindacati. Intanto la spesa pensionistica continua ad assorbire i due terzi della spesa sociale e il 15% del prodotto interno lordo. Inoltre, con Emma Bonino ministro per le Politiche europee, i Radicali denunciano la discriminazione nei confronti delle donne, la cui età pensionabile (60 anni) è più bassa di quella degli uomini (65). L’appello resta inascoltato e due anni dopo, con la sentenza del novembre 2008, la Corte di giustizia delle Comunità europee condanna l’Italia, per aver mantenuto in vigore una normativa in base alla quale i dipendenti pubblici hanno diritto a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse, a seconda che siano uomini o donne.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:25 | Message # 8
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Capitolo 12

LO SFASCIO DELLE ISTITUZIONI: IL «CASO» DEI PLENUM MANCANTI

All’inizio degli anni 2000, due violazioni della Costituzione minano il funzionamento di organi costituzionali di primaria importanza. Il primo grave vulnus riguarda la mancata elezione da parte del Parlamento, per 17 mesi, dei giudici costituzionali di sua spettanza. Il secondo è costituito dal mancato plenum della Camera dei deputati nella XIV legislatura.

12.1 Corte costituzionale

La Costituzione (articolo 135) è tassativa nel fissare in 15 i membri di cui si compone la Corte costituzionale. Accade invece che la Consulta operi e deliberi con soli 13 membri e, quindi, in assenza del plenum costituzionale dal 21 novembre 2000 al 24 aprile 2002, da quando cioè scadono il mandato del presidente Cesare Mirabelli e del vice-presidente Francesco Guizzi.
E’ al Parlamento, in seduta comune, che spetta di reintegrare il plenum. Per l'elezione è richiesta la maggioranza dei due terzi dei componenti dell'Assemblea per i primi due scrutini; la maggioranza dei tre quinti a partire dal quarto scrutinio. Il Parlamento si riunisce ben 19 volte, ma ogni tentativo naufraga sull’impossibilità di trovare un accordo tra i partiti e le coalizioni. Solo il 24 aprile 2002, i due giudici costituzionali sono finalmente eletti. Per ottenere questo risultato sono occorsi 7 giorni di sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, nell’ambito di un’iniziativa nonviolenta che prosegue successivamente per il reintegro del plenum della Camera dei deputati.
La storia si ripete nel 2008, quando il giudice costituzionale Romano Vaccarella si dimette il 4 maggio 2007 e il plenum della Corte rimane vacante per oltre diciassette mesi. Sarà sostituito da Giuseppe Frigo, eletto giudice costituzionale il 21 ottobre 2008, alla fine di una lunghissima trattativa tra i partiti e 22 votazioni del Parlamento andate a vuoto.

12.2 Camera dei deputati

La Costituzione (articolo 56) sancisce che la Camera dei deputati sia composta da un numero fisso di 630 membri e prescrive che neppure un solo seggio resti vacante nel corso dell’intera legislatura: lo si desume dalla lettera della norma, ma anche dalla giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità dei referendum elettorali.
La legge elettorale del 1993 prevede che l’elezione dei membri della Camera dei deputati avvenga in collegi uninominali per un numero pari al 75 per cento del totale, ma anche in circoscrizioni proporzionali (con liste plurinominali bloccate) per il restante 25 per cento dei seggi. Le liste presentate dai partiti nelle circoscrizioni possono essere collegate, con un legame espresso e formale, a candidature dei collegi uninominali. All’attribuzione dei seggi per la quota proporzionale hanno diritto solo le liste che in ambito nazionale hanno ottenuto almeno il 4 per cento dei voti (soglia di sbarramento).
Accade che le due più importanti coalizioni, per arginare gli effetti di un meccanismo ulteriore - che sottrae voti nella quota proporzionale alle liste collegate a un candidato risultato vincente nella quota maggioritaria - colleghino diversi candidati, nei collegi uninominali considerati vincenti, a cosiddette «liste civetta» della quota proporzionale, create ad hoc confidando nel fatto che non prenderanno parte alla ripartizione dei seggi nella quota proporzionale, non raggiungendo il quorum del 4 per cento.
Nelle elezioni del 13 maggio 2001, l’utilizzo di queste liste «fantasma» crea un problema a Forza Italia, che nella quota proporzionale raccoglie il 29,5 per cento dei voti su scala nazionale: i seggi assegnati sono maggiori rispetto al numero di candidati presenti nelle sue liste. La legge prevede in questo caso che i seggi per i quali non ci sono candidati, siano attribuiti ai «migliori perdenti» nei collegi uninominali collegati alla lista che ha superato lo sbarramento del 4% nella circoscrizione proporzionale, ma FI non ha candidati collegati, se non a «liste civetta» che non hanno raggiunto il quorum.
A questo punto, sempre secondo la legge, i seggi non attribuiti vanno ridistribuiti alla lista stessa nella quota proporzionale, dove essa ha ottenuto i maggiori resti, naturalmente nel caso vi siano non eletti. In tal modo, 5 dei 7 candidati mancanti per FI sono recuperati nelle circoscrizioni Marche, Emilia-Romagna, Puglia e Lazio 1 (due seggi).
Rimangono però ancora da attribuire due seggi e l’Ufficio centrale elettorale presso la Corte di Cassazione ripartisce fra le altre liste sopra il quorum i seggi non assegnati; cosicché, viene attribuito un seggio ulteriore ai Ds e alla Margherita. Accade quindi che «obbedendo» a questo regolamento i voti di cittadini espressi per Forza Italia servano a eleggere due parlamentari di partiti differenti e, addirittura, appartenenti alla coalizione avversaria.
Ma anche questo non basta a completare il plenum della Camera, perchè 4 candidati di FI sono già proclamati eletti sia nell’uninominale, sia in una o più circoscrizioni proporzionali, mentre altri 3 sono eletti in più di una circoscrizione proporzionale, situazione questa diversa da quella già «risolta» dalla Cassazione. Così in totale sono 11 i seggi «rimasti vacanti», per i quali si devono individuare i «subentranti».
La Giunta delle elezioni della Camera è incaricata di sbrogliare la complicata matassa; trascorrono le settimane e i mesi, ma non si riesce a trovare alcuna soluzione, fino a quando Marco Pannella non solleva pubblicamente la questione con uno sciopero della fame e della sete, iniziativa che segue cronologicamente ma che è strettamente legata a quella per denunciare l’altro mancato plenum, quello della Consulta.
La Camera dei deputati esce dalla sua inerzia e, il 15 luglio 2002, stabilisce di mantenere definitivamente l’assenza di plenum, data la difficoltà riscontrata nell’assegnare gli 11 seggi vacanti (diventati nel frattempo 12 per la morte di un deputato di FI eletto al proporzionale). Lo stato di illegalità permane, ma almeno lo si riconosce ufficialmente, e si prende atto formalmente che non si è in grado di risolverlo.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:26 | Message # 9
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Capitolo 14

LA NEGAZIONE DEL DIRITTO ALLA CONOSCENZA

L’avvento della Repubblica per lungo tempo non produce mutamenti nella disciplina della radiodiffusione voluta dal regime fascista, imperniata sulla riserva allo Stato dell’attività radiotelevisiva e sul penetrante controllo politico circa l’assetto societario ed i contenuti dei programmi. Nell’Italia repubblicana, il controllo del consenso e del dissenso continua a essere assicurato principalmente attraverso il controllo del mezzo radiotelevisivo, in continuità con l’uso che il fascismo fece della radio e del cinema.

14.1 Dall’Eiar a Raiset

Una immutabilità segnata persino dalla continuità giuridica, oltre che delle strutture e del personale giornalistico, della concessionaria unica Rai rispetto all’Eiar, l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche cui il fascismo ha riservato l’attività radiofonica.
Occorre aspettare il 1974 per vedere cancellato, sia pure parzialmente, il monopolio statale delle trasmissioni radiotelevisive, in virtù di due sentenze della Corte costituzionale che aprono il settore alle televisioni estere e a quelle via cavo. E’ lo stesso Presidente della Corte costituzionale, Francesco Paolo Bonifacio, in un articolo pubblicato sul Corriere della sera a due mesi dalla cessazione della sua funzione, a dare atto al Partito Radicale di aver contribuito a creare - attraverso la mobilitazione popolare intorno alla petizione contro il decreto Togni, che smantella i ripetitori delle tv estere, e alla raccolta firme per un referendum abrogativo delle norme del Codice postale che vietano le tv via cavo, purché si limitino all'ambito locale - il clima e le condizioni che spingono la Corte ad approvare quelle sentenze rivoluzionarie che porteranno al superamento del «monopolio pubblico» dell'informazione, per realizzare il «servizio pubblico».
Comincia così il periodo delle radio libere in tutta Italia e, quasi subito, la comparsa anche delle prime televisioni private. L’entrata in scena di alcuni editori (Rusconi, Rizzoli, Mondadori) proiettano le televisioni oltre la dimensione locale (con accorgimenti tecnici che Radio Radicale è una delle prime a mettere in atto nel campo radiofonico).
La sentenza della Corte, dal valore dirompente ma transitorio, mette in moto un processo che occorre però regolare per legge. Gli orfani del monopolio Rai (i sindacati dei giornalisti radiotelevisivi, molti intellettuali di sinistra, i partiti di opposizione, una parte consistente della Dc che ha controllato fino ad allora il servizio pubblico) impediscono che questa legge si faccia, adottando un atteggiamento di boicottaggio e di difesa degli equilibri esistenti.
A beneficiare più di tutti dell’assenza di una nuova regolamentazione del sistema televisivo, mentre contemporaneamente aggira la normativa esistente, è Silvio Berlusconi. La posizione di monopolio della Fininvest nel settore privato, viene dapprima consentita di fatto, quindi ratificata a più riprese dalla partitocrazia: prima con il baratto del 1985, del quale si rende protagonista anche il Pci (che ottiene il controllo di Rai 3 in cambio del salvataggio alle reti di Berlusconi) poi a più riprese, con le leggi «Mammì» (1990), «Maccanico» (1997), «Gasparri» (2003). Di pari passo anche la Rai viene occupata dai partiti e «privatizzata» a loro uso e consumo, attraverso la lottizzazione
Una convergenza di interessi partitocratici che prosegue fino a oggi, nonostante la spinta a favore della concorrenza proveniente dall’Unione europea. Il 15 giugno 2002 il Parlamento europeo ha approvato una mozione nella quale esprime preoccupazione «per la situazione in Italia, dove la gran parte dei media e del mercato della pubblicità è controllato in forme diverse dalla stessa persona», situazione che «potrebbe costituire una grave violazione dei diritti fondamentali a norma dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea modificato dal Trattato di Nizza». A ciò si aggiungono le reiterate sentenze della Corte costituzionale, di cui il caso «Europa 7» - emittente privata titolare di concessione ma priva di frequenze perché occupate illegalmente da una delle tre emittenti Mediaset – è significativa del mantenimento contra legem da parte della Rai di tre reti e della raccolta pubblicitaria. Nel gennaio 2008 la Corte di Giustizia dà ragione ad Europa 7, sentenziando che il regime delle frequenze in Italia è «contrario al diritto comunitario».
In tal modo, il tanto declamato pluralismo della comunicazione – pubblica e privata – finisce per rispecchiare, salvo poche e poco rilevanti eccezioni, il «pluralismo» interno al sistema dei partiti, affidando alla mediazione dei loro apparati burocratici finanziati dallo Stato la gestione della comunicazione. Nel frattempo, in sessant'anni non è mai avvenuto un ricambio generazionale dei dirigenti e dei giornalisti della concessionaria pubblica.

14.2 La sistematica ed impunita violazione delle regole dell’informazione politica

Nel primo periodo della Repubblica non esiste regola che disciplini l’informazione e la propaganda politica attraverso il mezzo radiotelevisivo.
A parte l’immediato dopoguerra, quando la radio pubblica è caratterizzata da un dibattito politico vivace, contraddistinto da personalità e da temi anche anticonformisti (come quelli trattati nel dibattito pressoché giornaliero che si teneva nella rubrica radiofonica «Il convegno dei cinque»), ben presto la rottura dei governi del Cln - dovuta alla scelta atlantica ed europea della Repubblica italiana - riporta l’informazione politica sotto il rigido controllo del Governo, escludendo dal confronto non solo i partiti di opposizione (il Pci, il Psi di allora, il Msi) ma in gran parte anche gli alleati laici dei governi democristiani.
L’assenza di regole sull’informazione falsa palesemente le competizioni elettorali: nel 1958 il Partito radicale ed il Partito repubblicano, presenti alle elezioni politiche con liste comuni, devono rivolgersi al Presidente della Repubblica per denunciare la loro totale esclusione dall’informazione elettorale.
La situazione, nonostante l’entrata in scena della televisione a metà degli anni ‘50, si protrae fino al 1963 quando, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale del 1960, i partiti di opposizione riescono a ottenere vere e proprie tribune elettorali, con dibattiti e conferenze stampa trasmesse dalla Rai dalle quali però sono escluse le forze politiche non rappresentate in Parlamento. I partiti del regime si assicurano così l'utilizzazione monopolistica della radio e della televisione, escludendone rigorosamente tutte le forze nuove che potrebbero in qualche modo turbare o concorrere a modificare gli equilibri, insieme immobili e logori, della vita politica italiana.
Gli anni successivi, grazie alle lotte del Partito radicale, sono caratterizzati dalla progressiva conquista di regole che restaurano presupposti minimi per la validità della consultazione elettorale. Nel 1968 e nel 1972 il Partito radicale denuncia l’illegalità delle elezioni politiche, decidendo di non presentare propri candidati e di invitare gli elettori a votare scheda bianca, e in pochi anni si ottiene, attraverso forti iniziative nonviolente e giudiziarie, una serie di storiche riforme: l’accesso alle tribune politiche dei partiti non rappresentati in Parlamento; la garanzia dell’equal time per tutti i competitori elettorali; il sorteggio dell’ordine di intervento; l’accesso alle tribune dei rappresentanti dei Comitati promotori dei referendum (ottenuto in occasione del referendum sul divorzio dopo 78 giorni di digiuno di Marco Pannella).
Sempre grazie a uno sciopero della fame e poi della sete di Marco Pannella, alle elezioni politiche del 1976 viene riconosciuto per la prima volta il principio della «riparazione» per soggetti politici cui è stato illegittimamente impedito l’accesso.
Da quel momento, la Rai e la Commissione parlamentare di vigilanza pongono in essere un'opera di smantellamento delle tribune, spostandole in fasce orarie di scarso ascolto, riducendone il tempo complessivo e adottando format che sterilizzano le tribune rendendole prive di interesse.
In breve tempo le tribune televisive passano da un ascolto medio di 19 milioni di telespettatori nel 1976 al milione e mezzo del 1986, ulteriormente dimezzatosi nel corso degli anni.
Contemporaneamente, dinanzi all'importanza assunta dalle consultazioni referendarie, gli spazi di accesso sono contratti, negando la peculiarità del Comitato promotore e diluendone la presenza con l'ammissione paritaria di decine di altri soggetti, tra partiti e comitati, ivi inclusi gli astensionisti.
Ottenuta la sostanziale eliminazione della possibilità per i cittadini di conoscere il dibattito politico secondo regole democratiche, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 si verifica lo spostamento della comunicazione politica nei programmi di intrattenimento, sottratti a qualsiasi vincolo regolamentare e controllati nelle conduzioni, così come i telegiornali, dalla lottizzazione partitocratica della Rai. Quando il legislatore completa il vuoto di regole per i programmi di informazione, l'applicazione della legge viene demandata a organismi di garanzia privi di adeguati poteri cogenti e comunque incapaci di assolvere le loro funzioni.
Alle elezioni del 2000, a seguito di una denuncia della Lista Bonino, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la storica delibera n. 70/00/CSP riconosce che Porta a Porta - il principale talk show politico, definito la «terza Camera del Parlamento italiano»- durante la campagna elettorale è un programma di comunicazione politica mascherato da informazione e che pertanto favorisce arbitrariamente alcuni partiti. Immediatamente, con i successivi regolamenti, la Commissione parlamentare di vigilanza interviene - in contrasto alla lettera della legge 28/2000 e potendo contare sull'inappellabilità dei propri atti affermata dalla giurisprudenza amministrativa – per «legalizzare» i comportamenti in precedenza considerati una violazione della par condicio.
Gli anni seguenti sono segnati dalla costante violazione della legge 28/2000, in primo luogo attraverso regolamenti di attuazione volti a limitare l'accesso alla televisione dei soggetti politici alternativi alle due coalizioni Polo e Ulivo. Dal 2000 a oggi non v'è competizione elettorale o referendaria senza che l' Autorità garante accerti ugualmente gravi violazioni della par condicio da parte dei programmi Rai e Mediaset. In questo contesto, nel 2000 vengono vietati gli spot televisivi, cioè l'unico strumento che si è rivelato efficace per il successo di forze politiche alternative, altrimenti non conoscibili dagli elettori. La sistematica violazione delle regole che disciplinano il sistema radiotelevisivo è possibile solo grazie all'impunità assicurata dal rifiuto sistematico dell'esercizio dell'attività giurisdizionale contro chi ha realizzato – dall’interno e dai massimi livelli dell'organizzazione della informazione e della comunicazione – veri e propri attentati ai diritti politici dei cittadini. Le iniziative giudiziarie in tal senso, avviate dal Centro Calamandrei e dai Radicali, registrano infatti la costante elusione dell'intervento della magistratura, così come quelle intraprese sul fronte della tutela dell’onore, della reputazione e dell’identità personale.

14.3 Le questioni popolari cancellate dall’agenda

In questo regime dell’informazione, la principale preoccupazione è di negare ai cittadini la conoscenza e il dibattito politico e culturale su temi che possano mettere in difficoltà i poteri dominanti. Si ottiene questo attraverso il controllo dell'agenda televisiva, con le sue attualità ed i suoi approfondimenti. Da subito, ad esempio, viene sostanzialmente esclusa l'informazione sull'attività di organi costituzionali come la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura. Sono accuratamente sottratte alla conoscenza vicende quali i poteri del Presidente della Repubblica (dal potere di esternazione a quello di grazia), l'assenza di plenum della Corte costituzionale e dello stesso Parlamento.
Sulle grandi questioni della politica italiana ed internazionale, sui temi popolari che toccano il vissuto dei singoli, mai è consentito un vero confronto. Dal divorzio all'aborto, dal finanziamento pubblico dei partiti alla giustizia, dal debito pubblico ai codici penali, dalla legislazione sindacale a quella sul lavoro, dalla fame nel mondo ai diritti umani, gli italiani non beneficiano mai di un serio confronto tra proposte alternative, oltre che di una informazione completa e imparziale. In questo modo, vicende fondamentali per la vita democratica sono trattate come questioni private.
Si spiega così anche l'accanimento antireferendario, che vede la Rai in prima fila nel tentativo –riuscito - di sabotare alla radice lo strumento costituzionale di democrazia diretta. I referendum, infatti, oltre che «spaccare» la compattezza del sistema partitico, sono per loro natura predisposti al confronto di posizioni su temi concreti, favorendo il contraddittorio e la riflessione sui fatti. Il silenzio informativo e l'assenza di approfondimento garantiscono a volte il fallimento della raccolta firme, altre volte il mancato raggiungimento del quorum, altre ancora l'impunita vanificazione delle vittorie referendarie.
Grazie al Centro d'ascolto dell'informazione radiotelevisiva, creato nel 1981 dal gruppo parlamentare radicale, per supplire alla mancanza di un servizio di monitoraggio pubblico dei programmi televisivi, che possa consentire un reale esercizio dei propri compiti alle istituzioni preposte al controllo e all’indirizzo della Rai, sin dai primi anni '80 sono prodotti studi statistici, incontestati, che dimostrano l' utilizzo della televisione a tal fine.
Nel primo Libro bianco, il Centro d'ascolto analizza i radio e telegiornali Rai sotto il profilo dello spazio dato ai diversi argomenti al centro dell’agenda politica e istituzionale di quegli anni: i temi della fame nel mondo e del finanziamento pubblico dei partiti appaiono marginali rispetto allo spazio dedicato ad avvenimenti strettamente di partito come la Festa dell’amicizia e il Festival dell’Unità. Alla fame nel mondo l’informazione Rai dedica un totale di 33 minuti, mentre al finanziamento pubblico dei partiti è riservato poco più di un minuto, contro i 56 minuti dedicati al Festival dell’Unità e l’ora e 48 minuti alla Festa dell’amicizia. In pratica, l'informazione privilegia non la notizia, ma il partito.
Pochi anni dopo, nel 1984, un secondo Libro bianco analizza il periodo di 9 mesi in cui si svolge il processo nei confronti di Enzo Tortora, il presentatore che sceglie di fare del suo caso un'occasione affinché il paese affronti uno dei suoi problemi più endemici, la mala giustizia, e per questo è eletto al Parlamento europeo, da cui si dimette per poter essere processato senza l'immunità parlamentare. I dati mostrano come in quei nove mesi Tortora sia stato intervistato una sola volta dal Tg1, per 38 secondi, in occasione della sua deposizione in un aula di tribunale, e analogo trattamento viene tenuto dalla Rai nei confronti degli esponenti del Partito che sta combattendo la sua battaglia. Pochi anni dopo, in occasione del referendum radicale per una «giustizia giusta», il popolo italiano mostra di avere in grande considerazione la questione, votando in massa per il «Sì».
Il tema giustizia è di fatto sempre cancellato dall'informazione e dall'approfondimento politico della concessionaria di servizio pubblico anche nei decenni successivi, nonostante l'inefficienza dei nostri tribunali e l'incredibile numero di condanne internazionali subite dall'Italia per la lunghezza dei processi.
Stesso trattamento è riservato ai grandi successi italiani di politica internazionale degli ultimi 15 anni: sull'istituzione del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra e contro l'umanità così come sull'approvazione all’Onu della moratoria delle esecuzioni capitali (che vedono l'Italia giocare un ruolo determinante), gli italiani hanno potuto a malapena apprenderne la notizia. Anche quando il Parlamento italiano si esprime con decisioni importanti e uniche nel panorama mondiale - ad esempio in occasione del tentativo nel 2002 di scongiurare la guerra in Iraq attraverso una seria trattativa per l'esilio di Saddam Hussein - il blocco Raiset sottrae letteralmente ogni possibilità di conoscenza agli italiani e, di conseguenza, svuota la forza di quelle proposte istituzionali e politiche.
Le tecniche di predeterminazione dell'agenda politica attraverso il controllo dell'agenda televisiva via via si perfezionano: quegli stessi temi che sono stati dapprima esclusi dal pubblico dibattito al fine di soffocare le spinte di riforma provenienti dalla società civile, sono dopo anni proposti solo quando si compie il processo che può aprire la strada alla «controriforma».
E’ il caso dei temi cosiddetti bioetici, cioè sulle libertà individuali.
Nel 2001, quando Luca Coscioni - un ricercatore universitario colpito dalla sclerosi laterale amiotrofica - diviene dirigente radicale e capolista alle elezioni politiche per dare corpo e parola all'idea di laicità della ricerca scientifica e delle istituzioni, 50 premi Nobel (tra cui il fisico inglese Stephen Hawking e lo scrittore Josè Saramago) e oltre 500 scienziati di tutto il mondo sottoscrivono un appello a sostegno della sua candidatura. Pur in presenza di uno sciopero della sete di Emma Bonino, dell'autoriduzione dei farmaci dello stesso Coscioni e di interventi pubblici del Presidente della Repubblica Ciampi e del Presidente del Consiglio Giuliano Amato, i temi della ricerca scientifica, del rapporto tra Stato ed individuo in materia di vita e di morte, sono completamente esclusi dai palinsesti televisivi di informazione e di approfondimento, salvo essere trattati a senso unico e contrario pochi giorni prima del voto su Rai 1, con 14 milioni di ascolto, nella trasmissione di Adriano Celentano, senza diritto di replica.
Negli anni successivi, a dispetto delle dichiarazioni dei due principali candidati premier di allora, Berlusconi e Rutelli, che giudicano tali argomenti estranei al confronto politico perché afferenti alle coscienze, proprio quei temi saranno oggetto di importanti atti legislativi e di governo.
In assenza di confronti televisivi, viene prima approvata la legge 40/2004 che vieta la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali e limita fortemente la fecondazione assistita, poi sabotati i referendum abrogativi assicurando il mancato raggiungimento del quorum.
Una situazione analoga si ripete con la vicenda di Piergiorgio Welby, altro dirigente radicale affetto da distrofia muscolare e militante per la legalizzazione del testamento biologico e dell’eutanasia. Dopo che nell'inverno del 2006 la drammatica lotta di Welby per una morte degna «buca» la cortina di silenzio eretta dalle televisioni, gli italiani vengono letteralmente bombardati per due anni da messaggi di contenuto proibizionista e fondamentalista, diffusi principalmente dalla Rai. Nello stesso periodo la concessionaria pubblica riserva agli interventi del Papa e delle gerarchie vaticane, nell'informazione e nei programmi di intrattenimento, enormi spazi di presenza - addirittura superiori a quelli dei partiti sommati insieme - con modalità che non hanno precedenti nella storia italiana e persino negli stati islamici. Quando poi nel 2009 giunge a compimento un'altra storia che coinvolge gli italiani, quella di Eluana Englaro, telegiornali e programmi di approfondimento di Rai e Mediaset si mobilitano nel fornire una informazione scorretta e parziale, al fine di preparare il terreno al decreto legge del Governo che impedisca al papà di Eluana l'esercizio del diritto della figlia a rifiutare le terapie riconosciuto dall'articolo 32 della Costituzione.
Un altro studio del Centro d'ascolto, effettuato dopo le elezioni politiche del 2008, mostra le modalità con cui la questione «sicurezza» - nonostante i dati del Ministero dell'Interno certifichino una generale riduzione dei reati - diventi una delle principali questioni elettorali in conseguenza di una abnorme sovra-rappresentazione televisiva, nei due anni precedenti il voto, delle notizie di cronaca nera, giudiziaria e di criminalità organizzata. Nei telegiornali il tempo di esposizione di tali eventi è raddoppiato dal 10,4% del 2003 al 23,7% del 2007, divenendo spesso la notizia di apertura oltre che l'argomento maggiormente trattato dalle testate giornalistiche. Le innumerevoli puntate dedicate dai programmi di approfondimento contribuiscono poi a far perdere la temporalità dell'evento e a rendere sempre attuali gli episodi criminosi. Rarissimi invece sono i casi in cui la notizia riguarda in termini positivi la riabilitazione di detenuti o una immagine positiva dell'immigrato.

14.4 L’imposizione di protagonisti e antagonisti di Regime

L'operazione di indirizzo tematico del paese, del «di cosa si può parlare», va perfezionandosi con l'imposizione mediatica dei protagonisti e degli antagonisti della vita politica.
La perimetrazione degli attori politici protagonisti – di volta in volta Dc e Pci, Polo e Ulivo, Pdl e Pd - è assicurata fino al 1976 con la formale esclusione delle forze non rappresentate in Parlamento e successivamente con la lottizzazione dei telegiornali e dei talk show, supportata dalle regolamentazioni fuorilegge della Commissione parlamentare di vigilanza e dalla oggettiva connivenza degli organismi di garanzia.
Nelle elezioni politiche del 2001, ad esempio, a fronte di cinque candidati premier, vanno in onda per oltre un mese comizi di un’ora ciascuno dei soli Berlusconi e Rutelli senza che siano presi provvedimenti efficaci per ripristinare la par condicio violata. Contemporaneamente, come documentato da una ricerca condotta dell’Università di Perugia, sono esclusi tutti i temi non funzionali alla contrapposizione tra questi due leader: l'unico tema che domina la campagna elettorale è «Berlusconi ed il conflitto di interessi».
Gli anni seguenti sono caratterizzati dalla progressiva e tacita riserva degli spazi principali e delle interviste con le maggiori potenzialità di ascolto ai rappresentanti delle due coalizioni dominanti. Le analisi scientifiche sui telegiornali dimostrano che l'informazione televisiva privilegia non la notizia ma il partito, facendo del servizio pubblico uno strumento partitocratico di selezione dei temi e delle forze politiche ammesse al dibattito. Così determinati i protagonisti della vita politica, negli ultimi quindici anni il perfezionamento nel controllo del mezzo televisivo al fine di soffocare le spinte della società civile avviene tramite la promozione dell'antagonista ufficiale. Gli esempi più recenti sono quelli relativi a Rifondazione Comunista ed Italia dei Valori, o meglio, ai loro leader Fausto Bertinotti e Antonio Di Pietro. Tra il 2000 ed il 2005, infatti, Bertinotti è il politico più presente nella principale trasmissione di approfondimento politico della Rai, Porta a Porta: 68 volte (per una comparazione, Marco Pannella è presente 12 volte). Questa straordinaria presenza mediatica, sproporzionata anche rispetto al peso elettorale del suo partito è dunque necessariamente voluta. Per anni fornisce agli italiani l'indicazione dell'antagonista ufficiale, sottraendo spazio a forze politiche che agiscono come alternativa al sistema dei partiti. Qualcosa di analogo accade oggi con Antonio Di Pietro: basta rilevare che, successivamente alle elezioni politiche del 2008, Di Pietro è il leader politico più presente nelle tre principali trasmissioni della Rai, Ballarò (8 volte), Annozero (6 volte) e Porta a Porta (7 volte).

14.5 Il «genocidio politico e culturale» del movimento radicale

Nei sessantanni di Repubblica, dunque, le condizioni generali della vita politica istituzionale rendono sempre più difficile il «conoscere per deliberare», principio base della vita democratica. In particolare, il controllo dei mezzi di comunicazione, dei temi come dei soggetti ammessi, fa si che non vi sia spazio per un partito che voglia concorrere, come vuole la Costituzione, alla determinazione della politica nazionale esclusivamente con le proprie proposte ideali e programmatiche. Proprio per la sua capacità di incardinare lotte istituzionali e politiche sui temi più popolari del paese, ancorati al vissuto dei singoli, il Partito radicale è dapprima marginalizzato dalla radiotelevisione, poi leso nella sua immagine e identità e infine cancellato.
Lo attestano quarant'anni di provvedimenti e di riconoscimenti provenienti dai massimi organismi istituzionali, giurisdizionali, politici e culturali.
La prima competizione elettorale cui il Partito radicale partecipa nel 1976, è preceduta da una trasmissione ad esso riservata quale simbolica riparazione riconosciuta dallo stesso Direttore generale della Rai per gli anni di ingiusta e totale assenza dalla televisione.
Due anni prima, dopo essere stati protagonisti insieme con la Lid della battaglia popolare per ottenere la legge sul divorzio, venivano del tutto esclusi dalle tribune referendarie precedenti il voto. E’ Pier Paolo Pasolini a rompere il muro di silenzio che circonda l’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame di Marco Pannella, con un articolo sul Corriere della sera nel quale sostiene che il motivo per cui «il mondo del potere – Governo e opposizione – ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita un assassinio» è legato alla «sua prassi politica realistica. Infatti è il Partito radicale, la Lid (e il loro leader Marco Pannella) che sono i reali vincitori del referendum del 12 maggio. Ed è per l’appunto questo che non viene loro perdonato da nessuno».
Nello stesso anno l'appello con cui i radicali convocano la prima marcia contro la Rai è sottoscritto da artisti ed intellettuali del calibro di Arrigo Benedetti, Alessandro Galante Garrone, Tinto Brass, Adriano Buzzati, Ignazio Silone, oltre a Pasolini.
Il 28 settembre del 1995, durante uno sciopero della sete di Marco Pannella di fronte al silenzio del sistema dell’informazione nei confronti della campagna referendaria in corso, ben 485 deputati e senatori sottoscrivono un appello al Presidente della Repubblica per denunciare che «è in corso un attentato ai diritti politici del cittadino» e per chiedergli di intervenire.
Il 19 novembre del 1997, la Commissione parlamentare di vigilanza, visionati i dati e «rilevata la pressoché totale assenza dai dibattiti e dai confronti televisivi di temi sollevati con molteplici iniziative dal Movimento dei Club Pannella e dai suoi leader», chiede alla Rai «di inserire tempestivamente nella programmazione televisiva trasmissioni di dibattito e di confronto su quei temi».
Di fronte ai dati di presenza addirittura peggiori di quelli precedenti, la Commissione il 10 marzo 1998 dichiara che la Rai non ha «ottemperato agli indirizzi della Commissione. Infatti, dall’approvazione della risoluzione dello scorso 19 novembre, la Rai non ha programmato neppure un dibattito televisivo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla riforma elettorale, ed ha fatto partecipare in modo saltuario gli esponenti della ‘Lista Pannella’ alla gran parte dei dibattiti dedicati al tema delle droga.»
Il 15 maggio del 1998, in una lettera indirizzata all'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - da poco istituita con il compito di garantire il rispetto delle norme sull'informazione politica -, il Presidente della Commissione di vigilanza, Francesco Storace, denuncia il comportamento della Rai come «un’operazione che non esito a definire di autentico genocidio politico-culturale.»
Dal 1998 al 2009, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni accerta, praticamente in maniera ininterrotta sebbene sempre su denuncia di parte, squilibri editoriali e violazioni di legge perpetrate dalle tre emittenti Rai a danno dei Radicali, per un totale di 40 provvedimenti aventi ad oggetto 47 diversi programmi. Altre decine di provvedimenti riguardano le emittenti Mediaset.
Questi comportamenti contra legem si verificano sia nei telegiornali che nei cosiddetti programmi di approfondimento e persino nelle tribune politiche, nei momenti decisivi dei periodi elettorali e con lunghe assenze nei periodi non elettorali.
Se si considera il triennio 2006-2008, il Tg1 è condannato cinque volte per comportamenti a danno dei Radicali, il Tg2 e il Tg3 quattro volte. Le principali trasmissioni di approfondimento vedono invece Porta a Porta subire sette volte provvedimenti per il danno arrecato ai Radicali; Ballarò cinque volte; Primo Piano e Telecamere tre volte; i programmi di Santoro due volte. Matrix, principale trasmissione di Mediaset, cinque volte.
Infine, l’intera programmazione informativa della Rai è oggetto di richiamo per squilibri nei confronti dei Radicali da parte dell’Autorità nel 1999, nel 2001 e nel 2006, da parte della Commissione parlamentare di vigilanza nel 1997, nel 1998, nel 2001, nel 2002 e nel 2007. Si tratta di un unicum nel panorama italiano e forse mondiale: non esiste infatti altro soggetto politico che possa in modo anche parziale avvicinarsi per numero, gravità, varietà e durata degli accertamenti di squilibri editoriali e violazioni degli obblighi di informazione. Parimenti, non esiste caso di leader politico che sia così marginalizzato come Marco Pannella, agli ultimi posti delle classifiche di presenza sia nei telegiornali che nelle trasmissioni di approfondimento, nonostante l'oggettiva straordinaria rilevanza della sua attività politica.
Nel marzo 2009, di fronte all'evidenza di questa strutturale e sistemica mancanza di apertura nei confronti della forza politica e culturale radicale, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per la prima volta, contesta alla Rai, ai sensi dell'articolo 48 del Testo unico della radiotelevisione, l'inadempimento degli obblighi di servizio pubblico.

14.6 Il compiuto attentato ai diritti civili e politici

La radio prima e la televisione poi sono state asservite all’esigenza di circoscrivere gli argomenti ammessi alla pubblica conoscenza e di predeterminare i soggetti cui consentire l’accesso, con l’obiettivo di abolire l’agenda reale del paese ed imporre protagonisti ed antagonisti di regime.
Un obiettivo perseguito e raggiunto innanzitutto impedendo concorrenza e libertà di impresa, difendendo il monopolio pubblico della Rai ed il successivo monopolio privato di Mediaset anche contro le sentenze dei massimi organi giurisdizionali nazionali ed europei. Facendo del servizio pubblico il luogo di spartizione partitocratica, dapprima a uso esclusivo delle forze di governo e successivamente oggetto di scientifica lottizzazione da parte dei maggiori partiti.
Ogni qualvolta poi sono conquistate regole democratiche che assicurino ai cittadini informazione e conoscenza, esse sono sistematicamente violate nella certezza della totale impunità, garantita dal costante rifiuto all’esercizio dell’attività giurisdizionale da quella stessa magistratura che rappresenta da anni la ragione sostanziale della mancata tutela dell’onore e della reputazione in Italia.
Lo strutturale asservimento dei più popolari mezzi di comunicazione si è da subito legato con la forte limitazione del diritto alla libertà di espressione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, realizzata con l’istituzione nel 1963 dell’Ordine dei giornalisti e subordinando la liceità di ogni pubblicazione all’iscrizione all’albo dei giornalisti del suo direttore responsabile (a questo proposito è tuttora in corso il processo a Pippo Maniaci, direttore della tv Telejato, combattuto dalla mafia e contestato dall’Ordine dei giornalisti perchè «non iscritto»). Una norma illiberale, che ha origine nel periodo fascista e non trova eguali negli altri stati democratici, sottoposta a referendum nel 1997 per iniziativa dei Radicali dopo che gli stessi hanno tentato di vanificarne gli effetti offrendosi come direttori responsabili delle principali testate dei movimenti extraparlamentari. La maggioranza dei votanti si esprime per l’abrogazione dell'Ordine dei giornalisti, ma dopo una campagna elettorale silenziata dal sistema dei media non è raggiunto il quorum.
Su tutto questo, sul sistema radiotelevisivo e sulle modalità con cui garantire la circolazione delle idee e rendere possibile la conoscenza, in 60 anni il paese non può mai avere un pubblico dibattito.
L’unica eccezione si ha nel 1995, in occasione del voto su quattro referendum, quando vengono a confrontarsi due alternative opposte di intervento sulla legislazione radiotelevisiva. Da una parte i Radicali, che individuano nella Rai il nodo centrale da sciogliere per arrivare a una riforma complessiva, chiedendone la privatizzazione e l’abolizione della pubblicità (quest’ultimo quesito non ammesso dalla Corte costituzionale), dall’altra i «progressisti», che vogliono colpire il monopolio del settore privato in mano alla Fininvest per meglio proseguire l’occupazione partitocratica del servizio pubblico. Gli italiani votano a favore solo del referendum radicale, ma negli anni seguenti il Parlamento ignora l’indicazione espressa dal corpo elettorale.
La funzionalità di tale assetto di potere a un sistema politico che per sopravvivere è costretto a violare la propria legalità, trova conferma nel fatto che su questo tema nessuna grande manifestazione è mai convocata da chi ne ha la possibilità effettiva. Solo il Partito radicale tenta di investire l’opinione pubblica del problema informazione, a partire dalla prima marcia contro la Rai che si tiene il 20 settembre 1974 e che porta alle dimissioni di Ettore Bernabei, il Direttore generale che ha governato per vent'anni la Rai a monocolore democristiano.
I pochi strumenti scientifici di monitoraggio della democrazia, del «quarto potere», vengono ridotti all’impotenza dopo che per anni se ne era impedita l’esistenza. È il caso del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva, il primo e più autorevole centro di monitoraggio televisivo che, proprio in ragione della sua indipendenza ed autorevolezza scientifica, nel 2008 è stato privato dei contratti con l’amministrazione pubblica e costretto a interrompere le sue attività. Si elimina così persino la possibilità effettiva di conoscere la realtà del sistema radiotelevisivo.
L’interesse è impedire che ai cittadini italiani giunga una informazione completa e imparziale del reale dibattito politico, come quella ad esempio assicurata dal servizio pubblico di Radio Radicale, che dal 1976 porta nelle case degli italiani dibattiti che avvengono in Parlamento e nei congressi di partito.
Da decenni i Radicali agiscono come attivatori di legalità, dei diritti di libertà costituzionali, attraverso la conquista di regole e la lotta per il rispetto delle leggi vigenti.
Proprio per questo, sono l’unica forza politica che da cinquant’anni viene costantemente ostracizzata, diffamata, cancellata, nel timore che dando accesso ai Radicali si aprano spazi di conoscenza su argomenti scomodi al regime e potenzialmente generatori di aggregazioni politiche e sociali alternative.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:29 | Message # 10
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Scheda n°1

CAMPAGNE ELETTORALI RADICALI: «CERTIFICATI BRUCIATI», «SCIOPERO DEL VOTO», «VOTA EMMA», «SATYAGRAHA 2009»

Campagne elettorali radicali diversissime, che molti «osservatori» definirebbero opposte nelle forme e nei contenuti, rappresentano in realtà il tentativo di rispondere a un unico problema: l’affermazione del diritto a conoscere per deliberare.

1972 e 1983: dal bruciare i certificati elettorali allo sciopero del voto

Dopo aver già bruciato le schede nel 1972, affrontando per questo denunce e processi, alle elezioni politiche del 1983 il Partito radicale decide di praticare l’»astensionismo votante». Questa strategia deriva dalla consapevolezza che «ogni residuo diritto politico e costituzionale è stato ulteriormente sequestrato riservandone l'esercizio solamente alle forze politiche che abbiano depositato liste elettorali» e dunque, la presentazione delle liste elettorali si rende indispensabile «quale strumento tecnico-politico pregiudizialmente necessario» per garantire il proseguimento dell'azione antipartitocratica, e informare il maggior numero di cittadini.
Viene adottata così una forma di «sciopero del voto», che si concretizza come un «boicottaggio nonviolento» delle elezioni, la cui pratica è chiaramente espressa nel volantino che il Pr distribuisce in campagna elettorale, ove si legge: «Il nostro primo impegno è di ottenere che il massimo numero di cittadini neghi a queste elezioni dignità e legittimità democratiche, con comportamenti capaci di costringere i partiti a cambiare politica: «scheda nulla, scheda bianca, astensione». Anche noi faremo così: annulleremo le nostre schede, scriveremo su di esse i nostri programmi, le firmeremo perché siano riconoscibili». Lo stesso volantino cita una «doppia diga» contro la partitocrazia e infatti agli elettori si propone anche una seconda opzione di voto: il voto alle liste radicali. «Per tutti coloro, invece, che non se la sentiranno di seguirci nel rifiuto, per coloro che non sono del tutto convinti o intendono comunque votare un partito, abbiamo predisposto una seconda diga per impedire che anche stavolta prevalga un voto partitocratico: le liste radicali».
Tutti i partiti si mobilitano contro l’astensionismo. «Astensionismo è diserzione» recita ad esempio uno slogan del Msi, «Se non ti occupi di politica, la politica si occupa di te» è lo slogan del Pci, che in un altro slogan utilizza l’analogia dei colori: «il voto bianco è voto Dc». «Non serve una scheda bianca, serve una scheda pulita» è lo slogan del Pli, pronunciato da una voce fuori campo durante uno spot televisivo. La campagna elettorale del 1983 è la prima campagna in cui il mezzo televisivo viene utilizzato in maniera sistematica. Anche per questo, pressoché quotidianamente si moltiplicano le iniziative radicali per garantire una corretta informazione, giungendo a investire la stessa magistratura denunciando l’allora Presidente della Rai Sergio Zavoli e i componenti del Consiglio di amministrazione della Rai-Tv per il reato di attentato ai diritti civili e politici del cittadino.
Il Pr chiede in concreto di ripristinare quelle condizioni atte a «garantire parità di condizioni, completezza ed obiettività di informazione», e si rivolge alla magistratura, quale «ultima linea di difesa contro una occupazione dei pubblici poteri e servizi da parte di soggetti privati, quali i partiti, che li esercitano a fini di parte».
Le urne danno al Pr il 2,2% dei voti con l'elezione di 11 deputati ed un senatore: nonostante la scelta astensionista, dunque, i Radicali tornano in Parlamento. In quella IX legislatura gli eletti radicali assumono un comportamento senza precedenti, rifiutandosi di partecipare alle votazioni in aula.

1999: «Vota Emma», vendita degli averi per ricomprarsi l’informazione rubata

In occasione della campagna elettorale per le europee del ‘99 i Radicali riescono a dare non solo la dimostrazione concreta dell’importanza di informazione e comunicazione nella democraticità delle elezioni, ma anche della portata dirompente delle loro proposte. Riescono infatti a prendere alla sprovvista il regime, disponendo per la prima volta di ciò che in precedenza era mancato loro: le risorse finanziarie.
A sorpresa, infatti, decidono di investire parte del loro patrimonio (vendendo l’emittente Radio Radicale 2, una quota di minoranza di Radio Radicale, e il 100% di Agorà Telematica, uno dei primi internet provider italiani) al fine di conquistare per sé e per i cittadini italiani quel diritto a «conoscere per deliberare» che sino ad allora era stato negato. Viene così realizzata una massiccia campagna di propaganda elettorale sui mezzi di comunicazione: 406 spot televisivi sulle reti Mediaset, 100 su Telemontecarlo e 5.056 sulle emittenti locali, più 45 milioni di lettere autografe di Emma Bonino inviate in quattro diverse spedizioni postali. Per un investimento totale pari 24.450.000.000 di lire.
La strategia comunicativa si caratterizza per la capacità di trasmettere agli elettori la durata e l’efficacia delle lotte e iniziative radicali degli ultimi 30 anni, espressa attraverso l’immagine e l’identità di Emma Bonino e canalizzata nella fiducia di garantire ancora quelle azioni politiche che ne avevano contraddistinto la storia.
In pratica, la lista Emma Bonino riesce a ribaltare il deficit comunicativo determinato dalla sostanziale assenza nei programmi di informazione, attraverso un investimento finanziario in messaggio politico «diretto», che consente di raggiungere un numero elevato di cittadini italiani, anche attraverso l’innovativo incrocio dei diversi canali disponibili: pubblicità sui media, invii postali e internet, telefonate.
Una circostanza irripetibile. L’impresa politica compiuta alle elezioni europee del ‘99 dai Radicali non è, oggi, in alcun modo riproponibile perché è stata messa fuorilegge. Infatti, nel febbraio del 2000 è approvata la legge n.28 (della cosiddetta par condicio), la quale, nel disciplinare l’accesso ai mezzi di informazione politica radiotelevisiva, comprime enormemente la possibilità per un soggetto politico di svolgere propaganda elettorale attraverso spot televisivi. In pratica, si passa da un regime in cui lo spot può essere acquistato dal singolo partito e collocato liberamente nei palinsesti (dovendo rispondere esclusivamente a leggi di mercato) a un regime in cui se ne limita la frequenza giornaliera, la collocazione nel palinsesto e persino in parte il contenuto.
Al sostanziale divieto di spot elettorali introdotto dalla legge sulla par condicio (basti pensare che da allora ciascun soggetto gode in media di meno di 2 messaggi autogestiti al mese sulle reti Rai, in orari e con modalità di basso ascolto) non segue tuttavia un incremento rilevante degli spazi di comunicazione politica offerti a parità di condizioni. Infatti, sebbene la legge 28/2000 preveda l’obbligo per le emittenti nazionali di trasmettere programmi di comunicazione politica, l’applicazione effettiva data dalle emittenti, in violazione di legge - con la colpevole inerzia delle istituzioni di controllo, in primis l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - fa sì che la comunicazione politica sia a lungo marginalizzata e addirittura negata, nonostante essa sia la giustificazione adottata per vietare gli spot televisivi a pagamento.
A fronte della sistematica riduzione degli unici spazi ad accesso diretto e garantito, cioè quelli di comunicazione politica (messaggi politici sterilizzati e tribune sospese, marginalizzate o, addirittura abrogate, come è accaduto da un anno a questa parte) è costantemente cresciuta la centralità delle trasmissioni «gestite» da un singolo conduttore televisivo, artificiosamente ridotte a trasmissioni di informazione al solo scopo di eludere il rispetto di una più stringente normativa.
Tutto ciò, unitamente a una giurisprudenza lassista degli organi di controllo, ha determinato una compressione della capacità di raggiungere l’elettorato - sia nei periodi normali che in quelli di campagna elettorale – da parte delle forze politiche estranee all’assetto politico di potere che, nella realtà dei fatti, si è trasformato in un monopartitismo perfetto.
La giustificazione politico-ideologica del divieto di spot televisivi, introdotto con la legge 28/2000, si è dimostrata dunque puramente strumentale al monoblocco partitocratico, rispetto a qualsiasi proposta politica «alternativa» a quella prevalente.

Satyagraha 2009

Oggi come allora - in vista delle elezioni europee del giugno 2009 per le quali sono già negati i diritti democratici di chi non appartiene a una delle due gambe del regime di monopartitismo e agli «oppositori» scelti come ufficiali - i Radicali si impegnano in «un’azione diretta nonviolenta di Satyagraha 2009 per la verità storica sulla scomparsa dello Stato di diritto e della Democrazia compiuta dal regime partitocratrico», a partire dalla redazione di questa documentazione sul Sessantennio di storia repubblicana seguito al Ventennio fascista. In tal modo essi preannunciano la partecipazione alle elezioni con la «Lista Bonino-Pannella», volta innanzitutto a utilizzare i residui strumenti di campagna elettorale per informare i cittadini sull’avvenuta cancellazione della democrazia e sulla necessaria lotta di liberazione.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:31 | Message # 11
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Scheda N° 2

RADICALI IN GALERA (DAL '66 A OGGI)

Buona parte della classe dirigente radicale (43 persone), a partire dal suo leader Marco Pannella, tra il 1995 e il 2003 è arrestata e processata nel corso di iniziative pubbliche di cessione a titolo gratuito di hashish e marijuana. Le sentenze dei tribunali di mezza Italia sono controverse: condanne in alcuni casi (14 persone), ma anche molte assoluzioni (17 persone), fino al riconoscimento a Marco Pannella che il reato «di lieve entità» commesso nel 1995 a Piazza Navona «è stato commesso per motivi di particolare valore sociale». A seguito di queste disobbedienze civili, 13 esponenti radicali fra i quali Marco Pannella, Sergio Stanzani e Rita Bernardini non possono più candidarsi alle elezioni regionali provinciali e comunali per una legge promulgata nel 2000 (D.lgs 268, art. 58). L’incandidabilità – peraltro non prevista per le elezioni al Parlamento Italiano ed Europeo – è «a vita», anche se la condanna comminata è di lieve entità. Il successo delle candidature di Marco Pannella nelle elezioni amministrative (Trentino, Trieste, Napoli, Catania, L'Aquila, Teramo, ecc.) ha in questo modo trovato il suo «arresto».

(Vedere la tabella intera nel testo originale, qua non è possibile inserire le tabelle)

Andrea e Lorenzo
Strik Lievers
Andrea Valcarenghi, Aligi Taschera, Giorgio Cavalli
Angiolo Bandinelli, Rendi, Gianfranco Spadaccia
Marco Pannella, Marcello Baraghini, Antonio Azzolini,
Silvia
Leonardi
Roberto Cicciomessere
Sei militanti
Giorgio Conciani
Gianfranco Spadaccia
Adele
Faccio
Emma
Bonino
Marco Pannella
Giorgio Conciani e sette militanti
Angiolo Bandinelli
Valter
Vecellio
Angelo Pezzana
Bruno De Finetti,
Giancarlo Cancellieri,
Valter Vecellio,
Andrea Tosa,
Roberto Cicciomessere
Gianfranco Spadaccia ed altri 13
Enzo Francone
Angiolo Bandinelli,
Jean Fabre,
Emiliano Silvestri
Jean Fabre
Sergio Rovasio,
Paolo Pietrosanti,
Ivan Novelli e altri
Alfonso Navarra,
Paolo Pietrosanti, Gaetano
Dentamaro, Maddalena Traversi, Andrew Hodson, Bruno Petriccione
Vari militanti
Luigi
Del Gatto
Sandro
Ottoni
Sergio
Rovasio,
Paolo Pietrosanti
Olivier
Dupuis
Gaetano Dentamaro
Gianfranco Spadaccia, Gaetano Dentamaro, Maurizio Turco
Olivier Dupuis, Andrea Tamburi e altri
Franco Corleone,
Ivan Novelli,
Paolo Pietrosanti
Emma Bonino, Angiolo Bandinelli, Olivia Ratti, Roberto Cicciomessere, Antonio Stango
Sergio Rovasio, Valentina Pietrosanti, Sabrina Coletta, Antonio Conti
Maria Teresa Di Lascia,
Massimo Lensi, Gaetano Dentamaro, Mario Cocozza
e altri
Vari militanti
Antonio Stango
Emma
Bonino,
Marco Taradash
Marco Pannella
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) + 8 mesi di libertà vigilata
Rita Bernardini
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Alessandro Caforio
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Antonio Borrelli
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Cristiana Pugliese
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Mauro Zanella
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Pigi Camici
(2 giorni di arresti domiciliari nel 1997)
Michele De Lucia, Sabrina Gasparrini,
Simone Sapienza, Maura Bonifazi,
Flavio Di Dio, Alessandra Spalletta
Olivier Dupuis,
Nikolai Kramov,
Silvja Manzi,
Bruno Mellano, Massimo Lensi
Marco Cappato
Marco Cappato, Ottavio Marzocchi, Nickolay Khramov, Sergey Kostantinov, Nikolai Alexeiev.

 
Eugenio_TravaglioDate: Giovedì, 19/11/2009, 16:31 | Message # 12
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Scheda N° 3

RADICALI FAMOSI E PERCIO’ CLANDESTINI

«Allora c’è un problema di mezzi. Se i nostri ascoltatori sapessero che questo è stato il Partito in cui si è iscritto Ionesco, a cui Sartre voleva iscriversi, con tutto il resto. La doppia tessera è un modo per distruggere il valore sacrale della tessera. E l’hanno fatta compagni del Partito Comunista degli anni ’60, con quel partito!».
«Forse dovremmo riguadagnare quella naturalezza per parlare di queste nostre cose, dopo 40-50 anni. Abbiamo urgenza. Quando uno in più si iscrive, è un evento, viste anche le nostre dimensioni». Marco Pannella

A chi vuole fare carriera, un posto in un ente di Stato, in Rai-Tv, la tessera radicale non serve, è anzi un danno. Ad altro, per raggiungere altri obiettivi serve quel cartoncino plastificato con la testa che raffigura Gandhi. E allora, se non è un partito di potere, di insediamento che fa leva sull’occupazione delle poltrone locali e nazionali, se non è neppure un partito ideologico, per quale ragione iscriversi al Partito radicale?
La risposta la si può condensare in una specie di slogan: per proseguire ed intensificare la battaglia per riconquistare all’Italia la legalità e la certezza del diritto. Per la difesa e il «ritorno» alla Costituzione scritta, in contrapposizione esplicita con quella «materiale», che altro non è se non la regola perversa che con la forza e l’arroganza il regime partitocratico e potentati di ogni genere hanno imposto al paese.
La scommessa giocata da sempre dai radicali, insomma, è quella di essere il Partito della Democrazia: per esempio ridimensionare i partiti, riconducendoli al loro posto, porre un freno alle loro prevaricazioni, ristabilire le regole del gioco per cui le leggi devono essere applicate, rendere i cittadini eguali fra loro e non sudditi rispetto allo Stato ed ai potentati, restituire al Parlamento la sua funzione di luogo nel quale effettivamente si prendono le decisioni, riconquistare un’informazione degna di questo nome da parte del servizio pubblico. In una parola: lo Stato di diritto contro lo Stato dei partiti.
Ecco dunque che di volta in volta, al Partito radicale hanno aderito e vi hanno militato persone con alle spalle le più diverse esperienze e culture, ma con un comune denominatore: riconquistare lo Stato di diritto e la Costituzione.
«Un Partito Radicale», ebbe a dire Jean Paul Sartre, «internazionale, che non avesse nulla in comune con i partiti radicali attuali in Francia? E che avesse, ad esempio, una sezione italiana, una sezione francese, ecc.? Conosco Marco Pannella, ho visto i radicali italiani e le loro idee, le loro azioni; mi sono piaciuti. Penso che ancora oggi occorrano dei partiti, solo più tardi la politica sarà senza partiti. Certamente dunque sarei amico di un simile organismo internazionale».
Di questa presa di posizione di Sartre nessuno mai ha avuto modo di sapere, perché nessuna trasmissione televisiva e nessun giornale si è interrogato sul perché di questa sua adesione.
E’ sterminata la lista degli iscritti e degli aderenti al Partito radicale in questi anni: alcuni tra gli scrittori più significativi del Novecento italiano: Elio Vittorini (del Pr diviene presidente e consigliere comunale), Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini. E ancora, alla rinfusa: la figlia di Benedetto Croce, Elena; Loris Fortuna; Piero Dorazio; Adriano Sofri; Dario Argento; Franco Brusati; Liliana Cavani; Damiano Damiani; Salvatore Samperi; Giorgio Albertazzi; Pino Caruso; Ilaria Occhini; Raffaele La Capria; Sergio Citti; Carlo Giuffré; Nantas Salvalaggio; Ugo Tognazzi, Mario Scaccia, Carlo Croccolo; Lindsey Kemp; Pierangelo Bertoli; Miguel Bosé; Angelo Branduardi; Lelio Luttazzi, Domenico Modugno; Claudio Villa; Vasco Rossi; Franco Battiato; Oliviero Toscani; Erminia Manfredi; Barbara Alberti; Goliarda Sapienza.
Non solo: dall’estero, si iscrivono Eugene Ionesco («Lo giuro: tutte le mie deboli forze saranno dedicate a far vivere il Partito Radicale, questo partito di cui non so nulla e di cui ignoravo l’esistenza…»); Marek Halter; il premio Nobel George Wardl; Arturo Goetz, Aristodemo Pinotti, Saikou Sabally, Vladimir Bukovskij, Leonid Pliusc.
Dalla solitudine e dal dolore del carcere giungono al Partito radicale centinaia di iscrizioni, detenuti comuni e politici. A Rebibbia si iscrivono 22 detenuti della cosiddetta «area omogenea»: Alberto Franceschini, Cavallina, D’Elia, Cesaroni, Calmieri, Busato, Frassineti, Cozzani, Di Stefano, Lai, Potenza, Gidoni, Cristofoli, Litta, Piroch, Vitelli, Martino, Bignami, Melchionda, Maraschi, Scotoni, Andriani: «Da non radicali», scrivono, «da detenuti politici e – speriamo presto – da cittadini liberi, ci iscriviamo al Partito radicale. E’ il contributo minimo che possiamo dare alla forza politica che espresse tensioni di crescita civile e democratica negli anni ’70 e che oggi continua a lottare su questo terreno, affinché tutti i non garantiti, la stessa non coscienza civile non perdano questo spazio per i diritti vecchi e nuovi. Come detenuti politici è un modesto segno di solidarietà e di affetto a chi seppe essere vicino ai problemi del carcere e della giustizia, con tanta intelligenza, abnegazione e amore».
Si iscrivono, tra gli altri i pluriergastolani Vincenzo Andraous, Giuseppe Piromalli, Cesare Chiti e Angelo Andraous.
Centinaia, migliaia di iscrizioni e di adesioni che restano «ignote» anche quando l’iscritto per la sua storia e la sua attività è un «personaggio». Il radicale non fa, non è «notizia». Eppure dal «pretesto» di questo o quell’iscritto si poteva avviare un dibattito-confronto sulla forma partito, la libertà di iscriversi a più partiti, l’impossibilità di espellere chiunque dal Partito radicale che accoglie l’iscrizione, non la «concede». Invece nulla, silenzio: non un solo dibattito pubblico sulle ragioni che hanno indotto migliaia di cittadini a iscriversi al Partito radicale, nessuna trasmissione che abbia ascoltato e registrato le loro ragioni.
Eppure è il partito che con pochi militanti e un numero irrisorio di iscritti (se paragonato a quello di altre organizzazioni politiche), grazie a criteri di organizzazione nonviolenta, rigorossima e libertaria, ha saputo realizzare quanto non hanno fatto in milioni, tutti gli altri partiti messi insieme. E’ forse questa una delle ragioni per cui dei radicali non si deve e non si può parlare?

 
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