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CERCANSI
MariaRosaDeHellagenDate: Domenica, 18/04/2010, 07:09 | Message # 1
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MariaRosaDeHellagenDate: Giovedì, 24/03/2011, 04:49 | Message # 2
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MariaRosaDeHellagenDate: Giovedì, 24/03/2011, 04:51 | Message # 3
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Intervista al giudice Roberto Ianniello: il rapporto fra la Giustizia e i Minori

22 marzo 2011

http://www.dirittoeminori.it/pages/intervista-al-giudice-roberto-ianniello-il-rapporto-fra-la-giustizia-e-i-minori/ (http://www.dirittoeminori.it/pages.... )

Riprendiamo una intervista, apparsa sulla rivista Psychomedia, al giudice dott. Roberto Ianniello, che è stato recentemente vittima di incredibili e vergognosi attacchi (pare che il giudice abbia osato tentare di proteggere un bambino da una madre assistita dall’avv. Andrea Coffari).

Padre di due figli e marito di una pediatra e psicoterapeuta il dott. Roberto Ianniello è giudice anziano del Tribunale dei Minorenni di Roma. E’ stato protagonista di una delle più significative esperienze di collaborazione fra Magistratura e Servizi Sociosanitari, la UORMEV (2) Attualmente fa parte del gruppo di ricerca sulla Mediazione Interistituzionale affidato dal Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune di Roma all’Associazione Romana per la Psicoterapia dell’Adolescenza e presieduto dal prof. Novelletto. Inoltre il dott. Ianniello coordina uno dei gruppi distrettuali organizzati dal Consiglio Superiore della Magistratura finalizzati all’autoformazione dei giudici attraverso la discussione dei criteri e delle metodologie utilizzate nello svolgimento del proprio lavoro istituzionale.

In quella che da molti viene definita una società “senza padri” e di figli “sregolati” la figura del giudice del Tribunale dei Minorenni appare sempre più intensamente investita di aspettative e di timori, sia da parte dei ragazzi e delle loro famiglie che dai Servizi sociosanitari deputati alla prevenzione e alla riabilitazione del disagio adolescenziale. Il magistrato appare collocato su un crinale fra due serie di rappresentazioni: su un versante vi è quella di una “giustizia giusta”, a cui viene delegata la responsabilità di ripristinare l’ordine che è stato sovvertito nella società e, in particolare, di garantire la tutela del minore, il più fragile e bisognoso fra i diversi attori sociali.
Sull’altro versante vi è la rappresentazione di una “giustizia ingiusta”, lenta oppure troppo frettolosa e fallace. In quest’ultimo caso il giudice viene rappresentato come un padre assente e autoritario, che dispone provvedimenti ma non ne verifica l’attuazione, sottraendosi alla relazione con gli utenti e con i Servizi. Insomma, il giudice dei minori è un personaggio allo stesso tempo vicino e lontano e questa intervista è finalizzata a conoscerne meglio ruoli, funzioni, orientamenti.

D. Partirò dal principio: quando e perché si è costituito in Italia il Tribunale dei Minori?

R. Il Tribunale dei Minorenni è nato nel 1934 principalmente come organo di controllo della gioventù, in un periodo in cui il Governo mirava al controllo totale della vita sociale dei cittadini. Esso avrebbe costituito un po’ un contrappeso al potere dell’Azione cattolica sui giovani e le famiglie, che il fascismo non riusciva ad intaccare. Negli anni ’30, ’40, Ô50 il giudice dei minori aveva una competenza molto estesa, particolarmente nei settori penale e amministrativo. Poteva intervenire sui minori “irregolari nella condotta”, come diceva la legge, per mandarli in case dove erano contenuti e “curati”. Si è lavorato molto sul piano giurisprudenziale per adeguare le norme alla realtà sociale e culturale in evoluzione. Quando verso la fine degli anni’60, sulla scia delle ricerche e delle scoperte americane, il concetto di abuso è giunto anche in Italia si è attivata la protezione dei minori dall’abuso, utilizzando le norme civili del codice degli anni ’40 attraverso un imponente lavoro interpretativo. Il giudice dei Minorenni è diventato sempre più il giudice dell’abuso e si è attrezzato per fronteggiare questo fenomeno sociale che si scopriva via via essere molto esteso.

D. In cosa consiste il lavoro di un giudice del Tribunale dei Minori in una metropoli come Roma?

R. Raffrontare il giudice dei minori alla metropoli mi sembra riduttivo. Il Tribunale di Roma opera su tutto il Lazio e ciò comporta occuparsi anche dei problemi di Comuni piccoli o piccolissimi: basti pensare che la sola provincia di Frosinone ha novantasei Comuni. Esistono tuttora molte problematiche legate al costume locale. Ad esempio, abbiamo potuto osservare fenomeni di incesto in province nelle quali permangono residui di una sorta di iniziazione rituale del pater familias rispetto alle figlie adolescenti, a volte anche preadolescenti. Come pure la resistenza culturale a istituti innovativi come l’affidamento familiare, per persone abituate a ritenere i figli altrettante cose proprie.

D. Quali sono le problematiche di cui vi occupate?

R. Da un’opinione pubblica abituata alle schematizzazioni il Tribunale dei Minorenni viene considerato il Tribunale dell’adozione e del perdono giudiziale. In realtà il 90% della competenza civile del Tribunale dei Minorenni è nel campo dell’abuso all’infanzia.
E’ un lavoro impegnativo perché è molto difficile individuare questa patologia dei rapporti familiari che spesso, in una visione ristretta, viene ridotta ai maltrattamenti fisici o alle violenze sessuali ma che ha un contenuto ben più ampio. L’abuso, in Italia, si concretizza in larga maggioranza in ipotesi di abbandono. Nella nostra società il bambino subisce molteplici e ripetuti abbandoni che spesso sono ascrivibili ad una ridotta capacità dei genitori ad occuparsene, non solo a causa dei molteplici impegni contingenti ma anche per una sorta di carenza sotto il profilo della trasmissione culturale. Una volta le mamme insegnavano alle mamme. La mia generazione, che è la generazione del Ô68 e del ’77, ha rifiutato ogni forma di tradizione, ogni forma di insegnamento dei padri. Tuttavia la mancanza di radici ed il rifiuto dell’eredità culturale ad un certo punto emergono in termini di disorientamento. Alcuni genitori non hanno avuto una bussola per orientarsi ed hanno dovuto inventarsi le risposte ai bisogni dei figli, per rispondere in maniera non autoritaria, come si faceva prima, pur senza conoscere fino in fondo i comportamenti corretti. A volte si sono commessi degli abusi anche non sapendolo, credendo di fare bene, e gli abusi influiscono sullo sviluppo dell’affettività, dell’aggressività e delle relazioni con l’esterno del bambino, senza parlare degli aspetti cognitivi. Queste carenze nell’evoluzione ad un certo punto emergono e spesso ciò si verifica nell’adolescenza.

D. In certi casi l’adolescenza sarebbe una sorta di cartina tornasole dell’abuso, dunque?

R. Purtroppo si cerca di curare con i farmaci o con equivalenti dei farmaci, come se tutta l’adolescenza fosse in sé una patologia, e si perde in questo modo l’occasione unica di intervenire per aiutare il ragazzo a rimettere le cose a posto in un momento caratterizzato da una grande mobilità psicologica. Non c’è da meravigliarsi dello straordinario successo che ha avuto, prima negli Stati Uniti e ora anche da noi, quella sindrome del bambino iperattivo con la quale si è preso ad etichettare come malattia qualsiasi disturbo che il bambino presenta nella relazione.

D. Chi vi segnala le situazioni di abuso?

R. La segnalazione può avere varie origini: un genitore, i parenti, i vicini di casa, la scuola. Non è facile individuare i fattori di rischio evolutivo e quelli di protezione. Qualche anno fa a Monza l’équipe del prof. Bertolini, effettuò una ricerca sui fattori di rischio. I ricercatori si rendevano conto che le famiglie abusanti normalmente sono occulte e non hanno relazioni con le istituzioni: non mandano i figli al nido o all’asilo. Gli unici momenti in cui si potevano individuare le situazioni di rischio familiare erano quello della nascita (il passaggio dalla ginecologia e dall’ostetricia) e il momento della visita pediatrica. Avevano allora predisposto dei questionari per individuare possibili situazioni che poi venivano seguite con un follow up atto a vedere come si poteva contenere il rischio. Spesso la segnalazione individua un’emergenza e richiede risposte immediate ad un disagio già in corso, mentre la modifica preventiva di una situazione di rischio permetterebbe di lavorare soprattutto con le famiglie, in una specie di alleanza nell’interesse del minore.

D. I non addetti ai lavori sanno che le decisioni del Tribunale vengono prese nella Camera di consiglio, ma non ne conoscono l’effettivo funzionamento.

R. La Camera di consiglio è composta da quattro persone: due sono giudici di carriera e
due sono giudici onorari: psicologi, assistenti sociali, neuropsichiatri, pedagogisti, insegnanti o avvocati, nominati a quella funzione proprio perché hanno una specializzazione rispetto alla trattazione dei problemi infantili. Uno dei due giudici è quello che conosce meglio il fascicolo, perché ha effettuato l’istruttoria.
L’altro è il presidente del collegio. Chi ha compiuto l’istruttoria riferisce quello che è successo, dalla segnalazione del caso a tutto quello che si è accertato in seguito (dichiarazioni delle persone, indagini del servizio sociale o della polizia) fornisce il suo parere in proposito e propone una soluzione. Questa soluzione viene discussa e a volte può non essere accolta. Può capitare a questo giudice di dover scrivere un provvedimento su cui egli non sia del tutto d’accordo ma che è stato votato dalla maggioranza del collegio. Questo è difficile da far comprendere ai Servizi territoriali ed alle persone che hanno collaborato con il Giudice nella raccolta dei dati, fornendo la propria opinione e le proprie proposte. Il Tribunale dei Minorenni sta cercando di riacquistare quanto più possibile un ruolo di imparzialità che nella foga della protezione dell’infanzia si era un po’ persa. I Servizi a volte pensano di poter concordare con il giudice una soluzione, ma questo non è possibile. Mi ricordo che nelle riunioni che c’erano all’epoca della UORMEV, in cui si discuteva dei casi, molte volte c’era da parte degli operatori l’accusa di non aver aderito alla proposta del servizio.

D. Il dottor Fadiga, l’ex presidente del tribunale dei Minorenni di Roma, segnalò che in numero sempre maggiore gli adolescenti si sottraggono al controllo della famiglia e della scuola e si orientano verso condotte antisociali senza i provvedimenti civili in materia di potestà genitoriale né i provvedimenti di ricovero in strutture protette riescano a fornire risposte di aiuto e di contenimento. E’ d’accordo?

R. Sono d’accordo. In istituto i problemi non si risolvono ma si aggravano, salvo rare eccezioni. Se l’adolescente rimane in famiglia, per quanto in una situazione conflittuale, ha qualche rapporto affettivo in più, l’ambiente è meno impersonale. Gli istituti dove si può effettuare una terapia si contano sulle dita delle mani. Di solito gli istituti sono privati e quando l’adolescente manifesta dei problemi (dà fastidio, ruba, picchia i compagni, è aggressivo) lo buttano fuori. Insomma ÔAlla prima che mi fai, fai fagotto e te ne vai!’, come diceva un personaggio del Corriere dei Piccoli. C’è bisogno di case famiglia e istituti qualificati e accreditati che non abbandonino l’adolescente a se stesso o lo facciano avviare ad una precoce psichiatrizzazione. Il problema degli adolescenti è un problema familiare ma anche un problema sociale. Spesso i Comuni possono offrire agli adolescenti solo le sale giochi, i video poker e forse una piazza come luogo di aggregazione. Se non hai la ragazza, il PC, non giochi nella squadra di calcio locale o non frequenti la parrocchia cosa fai, in un piccolo paese? Bisognerebbe effettuare investimenti mirati per dare agli adolescenti più alternative: ad esempio realizzare centri diurni di aggregazione, con attività più o meno specializzate.

D. Mi sembra che abbia toccato il problema particolarmente spinoso dei luoghi e delle modalità dove “trattare” adolescenti problematici.

R. Il giudice può individuare una diagnosi adeguata, e il trattamento adeguato, ma poi la terapia non si può realizzare perché l’adolescente di Pignataro Interamnia o di Broccostella non trova nelle istituzioni del suo paese i mezzi e la volontà per essere seguito. Trovare un luogo per curarlo costa troppo. Da tempo ritengo che i Comuni che non riescono da soli a realizzare i compiti istituzionali che la legge gli affida in materia di tutela delle persone dovrebbero trovare dei sistemi per unire le loro forze, in maniera da sostenere insieme il peso e le difficoltà di questa azione. Gli unici consorzi che i Comuni sono riusciti ad organizzare sono quelli per lo smaltimento dei rifiuti. Credo che, assieme allo smaltimento dei rifiuti, sia necessario pensare a curare dei cittadini che, se non verranno aiutati e seguiti, potranno creare dei problemi futuri, non solo a se stessi e alle loro famiglie ma a tutta la società.

D. Quali sono i problemi di un’istituzione complessa come quella di un tribunale?

R. Sono i soliti, i condizionamenti dall’alto e dal basso. Dall’alto quelli legati a certe prassi burocratiche di origine ministeriale o anche dalla Corte d’appello: non so, compilare dei registri o non ricevere la copertura dei posti scoperti in organico. Dal basso il fatto di non disporre di personale qualificato. Il Tribunale dei Minorenni poi differisce dagli altri organismi giudiziari. Normalmente il giudice ha come interlocutori la polizia e i consulenti tecnici. I consulenti tecnici sono nominati dal giudice e in qualche modo dipendono dal giudice; il capo della polizia giudiziaria è il procuratore della repubblica, un magistrato. Il Giudice dei Minorenni, però, non agisce con la polizia né con i consulenti tecnici ma con specialisti di altre professioni che hanno un diverso ordinamento e diverse dipendenze gerarchiche, vengono pagati da altre istituzioni e sono totalmente liberi rispetto al giudice. Il giudice non può emettere ordini nei loro confronti. Essi devono svolgere il loro lavoro secondo i criteri della loro professione, che sono molto spesso diversi da quelli giuridici.

D. Si pone quindi un problema di integrazione fra queste diverse figure?

R. Sì, a livelli diversi. Sia in termini di comprensione del linguaggio che di conflitti fra i dirigenti delle diverse istituzioni che possono fortemente condizionare il risultato di questa attività, che è un’attività complessa. Ormai l’hanno capito un po’ tutti che su un bambino, e soprattutto su un adolescente, si può sperare di ottenere un risultato se si lavora in équipe, con più persone che portino le proprie competenze scientifiche ma anche le capacità personali, sia tecniche che empatiche. Io mi batto da anni per la creazione di Servizi multidisciplinari, formati da più operatori che lavorano insieme. L’idea di risolvere i problemi con il singolo assistente sociale, magari relegato in un piccolo Comune sulla montagna, è pura utopia.

D. Eppure talvolta fra magistrati ed operatori dei servizi si registra una polemica: i primi contestano ai servizi sociosanitari del territorio di non fornire adeguati elementi per il giudizio e la decisione conseguente; i secondi denunciano la resistenza dei magistrati a voler realmente collaborare con altri professionisti e una tendenza a voler risolvere da soli i problemi. Qualcuno ha parlato addirittura di giudici in camice bianco e psicologi in toga nera. Qual’è la sua opinione in proposito?

R. E’ una polemica vecchia, credo abbastanza superata. Adesso l’accusa principale è quella di non voler concordare la decisione, mentre il giudice decide come terzo. Per cui ci sono richieste strane, ad esempio che la relazione del Servizio rimanga segreta. Ma come si fa a rendere segreto l’atto di un processo in un sistema in cui c’è la massima trasparenza a garanzia di tutti? Capita ancora, però, che certe indagini e certi accertamenti siano carenti e non diano gli elementi sufficienti per decidere, o che vengano effettuati dopo un tempo talmente lungo da rendere vana la protezione. Il giudice non attende passivamente questo tempo: ogni tre mesi al massimo sollecita una risposta; ma io ho avuto delle ASL che mi hanno risposto, nonostante solleciti stringenti, dopo oltre un anno. E allora l’alternativa è denunciarli per omissione di atti d’ufficio. Ma serve realmente fare questo? Una denuncia non facilita una collaborazione. Quindi il rapporto è sempre molto delicato. In ogni lavoro, sia fra i giudici che fra gli operatori e gli specialisti dei servizi, ci sono persone brave e meno brave, persone che hanno voglia di lavorare e persone che non l’hanno. Il problema vero è quando un Servizio s’identifica con la figura di una sola persona: se questa persona è impreparata è un guaio per tutti.

D. Diversi esperti propongono di migliorare il faticoso processo di integrazione fra magistrati e operatori dei servizi introducendo una specifica formazione psicologica per i primi e una formazione giuridica per i secondi. Non le sembra che in questo modo si dia troppo spazio agli aspetti intellettuali e troppo poco allo scambio e alla comunicazione diretta di atteggiamenti, contenuti e modelli culturali caratteristici delle specifiche professioni?

R. Penso di sì. L’integrazione è molto difficile anche perché i ruoli sono diversi: i Servizi devono svolgere le loro competenze in materia di accertamento, di prognosi, di individuazione delle problematiche e di proposte di soluzione, mentre il giudice deve giudicare. Il compito del giudice è di effettuare la iuris dictio, cioè dire quale norma di legge si applica al caso concreto e qual’è il rimedio alla violazione che si è verificata. E’ indubbio che una formazione specifica possa essere utile nel senso di creare le basi per una formazione comune. Però mi spaventa pensare ad una formazione di tipo tayloristico, nella quale ci sia il Docente e i discepoli che devono abbeverarsi al suo sapere. Una formazione così ormai abbiamo scoperto non funziona, non serve a scambiare ed elaborare le esperienze, i diversi modi di pensare e di sentire, né ad evitare appiattimenti cognitivi.

D. Negli ultimi anni hanno fatto scalpore i delitti commessi da alcuni adolescenti italiani, da Pietro Maso alle ragazze di Chiavenna e di Foggia fino a Omar ed Erika. Dal suo osservatorio a lei sembra che la violenza giovanile sia in aumento in Italia?

R. Direi di no. I dati statistici ci dicono che il livello di delinquenza giovanile in Italia è il più basso che esista in Europa e che questa situazione è rimasta stabile negli ultimi cinque anni. Certo è indubbio che oggi si assista a delitti particolarmente efferati e che ciò susciti particolare clamore, anche in relazione alla straordinaria cassa di risonanza dei mass media, motivati da esigenze spesso principalmente commerciali.

D. Cosa ne pensa delle proposte di legge di diminuire l’imputabilità piena da diciotto a quattordici anni e quella ridotta da quattordici a dodici?

R. Sono le proposte dei cosiddetti benpensanti, spaventati dalla risonanza di cui parlavo prima. Fino a quattordici anni si ha una piena irresponsabilità dei minori e al di sopra di quell’età, dai quattordici ai diciotto anni, vi è una piena imputabilità ma con una diminuzione della pena fino ad un terzo. Con il bilanciamento delle aggravanti, delle attenuanti e della diminuente della minore età si può sempre valutare la pena in maniera adeguata alla situazione, disponendo anche pene severe, se ne ricorrono i presupposti , dal momento che le previsioni normative lo consentono.

D. E’ vero che aumentano i reati commessi dagli infra-quattordicenni ?

R. Statisticamente non è dimostrato. In città come Roma il dato percentuale più elevato riguarda i reati commessi da persone non italiane, reati sempre degli stessi tipi: furti commessi dagli zingari e vendita di stupefacenti da parte dei nordafricani. Si cominciano a manifestare fenomeni di bullismo, che sono evidentemente dipendenti da un ambiente familiare e sociale inadeguato.

D. Un dato significativo è l’aumento dei reati collettivi. L’adolescente è spesso affiancato da un “complice”: un amico, il ragazzo/a, o, più frequentemente, agisce all’interno di un gruppo o di una “banda” legati da dinamiche specifiche. Mi pare che questo segnali lo stretto vincolo fra la mente del singolo e quella del gruppo e renda particolarmente complicato l’accertamento della responsabilità civile o penale che è sempre individuale. Come si muove il giudice in questi casi?

R. I reati di gruppo ci sono sempre stati. L’adolescente si unisce in bande quando ha bisogno di trovare conferme che non ha né nella famiglia né nell’ambiente sociale più esteso. Se i giovani fossero in società primitive probabilmente si sottoporrebbero a riti di iniziazione; in questa società a volte il comportamento antisociale può costituire l’equivalente di un rito iniziatico. Se l’adolescente avesse delle alternative nella famiglia o nel gruppo sociale non avrebbe bisogno di cercare conferme, considerazione, collocazione e anche affetto nella banda. Pensiamo alla paura che ha un adolescente quando commette un reato: paura di essere scoperto e di non essere adeguato, di perdere la faccia di fronte alla banda e al capo della banda, che può essere anche un adulto. Non ci dimentichiamo mai che imputabilità significa capacità di intendere e di volere, che vuol dire capacità di intendere il significato delle proprie azioni ma anche di volerle autonomamente. E’ opinabile che chi partecipa ad una banda abbia delle minori capacità di volere autonomamente l’atto compiuto perché in quel momento esso è in qualche modo emanazione di qualcun altro, di qualche cos’altro, forse emanazione di questo spirito impersonale ed anonimo della banda che proprio per questo anonimato permette una confusione fra ruoli, azioni e desideri. Mi viene sempre in mente quella definizione del popolo tedesco che lo rappresenta tanto sublime in ogni singolo individuo e così spregevole se preso tutto assieme. L’adolescente a volte è anche un po’ questo e bisogna tenerne conto.

D. Si dice che l’adolescenza possiede una sua specifica carica provocatrice e che rappresenta la fase della vita che più di ogni altra produce intensi processi identificatori fra il soggetto e i suoi oggetti. Sarebbe proprio questa caratteristica che attiva tanto l’interlocutore. E’ così anche per il giudice dei minori?

R. Sì. Alcuni giudici possono non trovarsi bene a svolgere questo lavoro perché può smuovere conflitti irrisolti del soggetto che indaga. Soprattutto nei rapporti con gli adolescenti, ma anche con i bambini e con le loro famiglie. Allo stesso modo ci sono aspettative riversate sul giudice per le quali egli può essere vissuto in senso miracolistico, come quel soggetto imparziale che risolve il conflitto che coniugi o conviventi non riescono a risolvere. Però il più delle volte prevale una difesa della propria riservatezza ed esiste una grande paura che qualcuno metta il naso nelle vicende familiari. Il giudice, dal punto di vista soggettivo, può essere vissuto come una figura da cui guardarsi perché è un po’ una schematizzazione del Super-Io. In effetti, fra le istituzioni, quella che giudica ha connotati fortemente superegoici. Così la relazione con il giudice può dipendere dal rapporto che ogni persona e ogni famiglia ha costruito con il Super- Io. Il mondo familiare è un mondo chiuso per definizione, in cui nessuno deve mettere bocca. I luoghi comuni su questa privatezza sono nei proverbi e nelle massime incise sulle mattonelle vendute nelle Fiere di paese. “I panni sporchi si lavano in famiglia” si dice, oppure “Dentro la mia casa io sono il re”, ed anche il detto poco ospitale sulla somiglianza fra ospiti e pesci finisce per inserirsi in questa difesa strenua di un ambito nel quale si può entrare se invitati (l’ospite), ma solo per breve periodo, e dove si è soggetti all’autorità assoluta del capofamiglia (il re). In tale ordine di idee è difficile accettare che ci sia un organismo statale della forza e del peso di un Tribunale che interviene ed interferisce con le decisioni e le vicende familiari. Anche nei giudici è talvolta presente il burn out che così gravemente colpisce i lavoratori delle helping professions tutte le volte che non riescono a superare l’inevitabile accumulo di frustrazioni conseguente alle difficoltà ed agli ostacoli nel raggiungimento degli obiettivi del proprio lavoro..
Il giudice che vuole svolgere bene il proprio lavoro ha bisogno di guardarsi dentro, acquisire quegli elementi che gli permettano di dialogare con le persone con cui viene a contatto e risolvere quei conflitti che possono inficiare il proprio giudizio, impedendo di vedere la realtà così come è.

Titolo originale: Il rapporto fra la Giustizia e i Minori. Roberto Ianniello. Intervista di Emilio Masina, tratta da http://www.psychomedia.it/aep/2002/numero-2/masina.htm

 
MariaRosaDeHellagenDate: Giovedì, 24/03/2011, 04:56 | Message # 4
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Il caso contestato al giudice Ianniello

http://nonpiuspettatori.com/2011/02/28/sen-pedica-un-caso-particolare-di-ingerenza-in-procedimenti-giuridici/ (http://nonpiuspettatori.com/2011....uridici)

Senatore Pedica: Un caso particolare di ingerenza in procedimenti giuridici?

Nei mesi scorsi un episodio di giustizia familiare ha causato l’appello rivolto al presidente del Tribunale dei Minori di Roma, Dott.ssa Melita Cavallo e l’intromissione di un noto esponente del mondo politico, il senatore Stefano Pedica (foto).

Chi scrive è Massimo Fieramonti, padre del bambino conteso, il quale ha rivolto a sua volta un appello al ministro della Giustizia, Angelino Alfano, e del cui caso si è interessata anche l’on.Alessandra Mussolini con una apposita interrogazione parlamentare. Riportiamo testualmente:

“Molto spesso si legge sui giornali di papà che non riescono a frequentare i propri figli, dell’egoismo di alcune madri che inspiegabilmente e senza alcuna apparente ragione, proibiscono ai figli l’apporto dell’amore dei padri. Alcuni giornali, insieme a taluni giudici, da anni si occupano solo di far fuori (politicamente parlando) il presidente del Consiglio, delle sue telefonate o delle sue cene. ma quando le telefonate le fanno esponenti dell’IdV (on.Stefano Pedica) al Presidente del tribunale dei Minori (Dr.ssa Melita Cavallo) per ottenere l’annullamento di certi provvedimenti giudiziari, nessuno ne vuole parlare.

Sette mesi fa c’è stato il primo boom mediatico organizzato da “Repubblica” e da altre persone, su una vicenda che non aveva bisogno di essere portata alla ribalta nazionale e tantomeno in modo così mendace.

Tengo a precisare che la madre di mio figlio, Sig.ra Valentina Pappacena, è indagata dalla Procura di Latina per inosservanza dei provvedimenti del giudice, per sottrazione di minore, e forse anche per sequestro di persona e non so quali altri reati. ma tutto questo non è bastato all’esponente dell’IdV che, per premio, l’ha eletta presidente provinciale delle donne IdV e le ha aperto un Centro Antiviolenza Donne a Latina. Lei, come si evince dalla CTU ordinata dal Tribunale dei Minori di Roma, è responsabile di Mobbing Genitoriale nei confronti di mio figlio, e di una serie di infinite violenze psicologiche atte ad annullare la figura paterna nei confronti del bambino”.

E l’appello del signor Massimo Fieramonti prosegue con la lettera inviata al ministro Alfano:

“Egregio Signor Ministro,

quando si subisce un’ingiustizia è lecito chiedersi come è potuto accadere. Si tenta di capire dove sia lo sbaglio e il suo perché. Si cerca di fare un’analisi dei fatti e delle esperienze vissute, ma non sempre si riesce ad arrivare alla verità.

Del trattamento di cui sono stato “beneficiato” e di cui beneficiano migliaia di cittadini, come padre mi sento offeso ed umiliato. Alla sofferenza morale, al dolore derivante dalla sottrazione di affetti, si è aggiunta la beffa di vedermi negato un diritto riconosciuto da decine di provvedimenti del Tribunale dei Minori di Roma, poiché nessuna autorità è stata disposta a renderlo esecutivo. Tutte quelle persone che avrebbero dovuto tutelare e salvaguardare il diritto di mio figlio ad avere un padre, hanno invece tutelato l’insano egoismo di un adulto, ovvero della madre.

Allego, l’interrogazione parlamentare presentata dall’on. Alessandra Mussolini.

Confido in un Suo prezioso aiuto. In difetto, non rivedrò più mio figlio. Distintamente – Massimo Fieramonti”.

I fatti che seguono sono la motivazione di quanto esposto:

“Il 21 dicembre 2009 (dopo 7 anni di udienze processuali…) perviene ai servizi sociali di Sezze (LT) un provvedimento (il primo), di allontanamento del minore, dalla madre, con decadenza della potestà genitoriale della stessa ed affidamento al padre, ossia il sottoscritto.

Viene quindi ordinato ai Carabinieri ed ai servizi sociali di Sezze – Sig.re Marteddu e Lentisco – di eseguire il suddetto provvedimento. I servizi sociali avvisano la madre, Sig.ra Valentina Pappacena, la quale si rende irreperibile per circa tre mesi, e né i Carabinieri di Sezze, né quelli di Latina Scalo i di latina, fanno ricerche per trovare mio figlio.

Ho quindi contattato un investigatore privato che, nel giro di due giorni riesce a trovare il bambino. A casa sua! Il mio avvocato avverte il pm Capasso (Sostituto Procuratore di Latina) e titolare del procedimento, ed ordina ai Carabinieri di Sezze e ai servizi sociali di eseguire il provvedimento. Questi si recano sul posto ma non prelevano il bambino, giustificando che il medesimo non voleva andare con il padre, grida, piange, scappa; quindi per non turbare l’equilibrio psicologico del minore, rinunciano a prelevarlo.

A questo punto, il giudice, dr.Janniello, sconcertato per la mancata esecuzione del provvedimento, con una seconda ordinanza incarica la questura di Latina, Ufficio Minori, di procedere all’allontanamento del minore.

Nelle more, deposito istanza al Tribunale Ordinario di latina, nella veste del giudice tutelare, per chiedere che i servizi sociali eseguano il provvedimento. Il giudice, dr.ssa Francesca Cosentino, assegna 10 giorni per adempiere, allo scadere dei quali i servizi sociali, riconvocati, dichiarano di non aver adempiuto al provvedimento. vengono quindi inviati gli Atti alla Procura della Repubblica per “omissione di atti d’ufficio”. Da segnalare che nel fascicolo depositato al Tribunale dei Minori risultano agli atti i fax inviati dalla Questura ai servizi sociali di Sezze, con i quali viene sollecitato l’intervento: Fax ai quali i servizi sociali non hanno mai risposto !

Arriva quindi un nuovo provvedimento (il terzo) per l’affidamento del minore ad una “casa famiglia” ritenendo necessario un più stretto avvicinamento fra la figura paterna ed il figlio, dopo anni di influenza materna negativa. Tale provvedimento doveva essere eseguito dalla Questura di Latina. I servizi sociali dovevano indicare il nominativo della casa famiglia: tale nominativo non è mai stato indicato !

Il 2 marzo 2010 il giudice, dott.Janniello, convoca in udienza il sottoscritto, la madre, ed il minore, per ascoltarlo, ed un curatore speciale del bambino, nella persona dell’Avv.Enrico Ronchi, nelle more nominato. A tale udienza, la madre si presenta con l’assistenza di un nuovo avvocato (il quinto!), tale dott. Coffari, di Firenze, ma non viene fatto comparire il bambino.

Vengono quindi azzerati tutti i provvedimenti adottati, sia di affidamento al padre, che alla casa famiglia, e si da’ carta bianca per una mediazione al nuovo curatore, il quale stabilisce che il bambino dovrà stare tre giorni con il sottoscritto e tre giorni con la madre, che accetta tale soluzione.

Il curatore parte da Roma e si reca a Borgo Faiti (LT) presso l’abitazione della madre, Valentina Pappacena, dove rimane per oltre due ore. Solita sceneggiata: il bambino non vuole saperne di andare con il padre, e l’accordo salta.

Il curatore redige una relazione e la deposita al Tribunale, nella quale viene evidenziata la negatività dell’ambiente familiare dove il minore vive e la negativa influenza della madre e della nonna materna nei riguardi del minore stesso, tanto da “renderlo quasi un automa ai loro ordini”. Preso atto della relazione del curatore, il Tribunale emette il quarto provvedimento con il quale interrompeva il legame viziato fra il bambino e la madre e disponeva, in via temporanea e strumentale, l’allontanamento dello stesso, allo scopo di sottrarlo alle anzidette influenze negative, da un nucleo familiare definito fortemente patologico, con sospensione del rapporto fra il bambino e i familiari materni. Disponeva inoltre l’allontanamento immediato del bambino a cura della Questura di Latina, Ufficio Minori, e l’assegnazione ad una casa famiglia al di fuori del territorio di residenza. E ancora una volta la madre si rende irreperibile con il bambino. La Procura di latina inserisce la sig.ra Valentina Pappacena fra le persone da ricercare.

A questo punto, scoppia il caso mediatico, con una vera e propria campagna diffamatoria contro il Tribunale dei Minori di Roma e contro le forze dell’ordine, e con richiesta ricusazione del giudice dr.Janniello. Lo stesso, dopo una settimana, decideva di astenersi…”

Sostanzialmente, appare chiaro che, stando ai fatti esposti dal sig.Fieramonti, la madre sia la regista occulta di un piano ben chiaro. Inoltre risulterebbe evidente l’intenzione di non ottemperare alle decisioni del Tribunale. Il bambino conteso viene visto a scuola, nonostante risultasse irreperibile. Il padre avverte la Questura che lo aveva dichiarato scomparso da circa tre settimane. La polizia arriva a scuola, nel frattempo arriva anche la madre, infine il bambino viene preso in consegna dagli agenti, ma nel frattempo, la Polizia Anticrimine ordina di soprassedere all’allontanamento del bambino, il quale viene riconsegnato alla madre. La vicenda continua con la richiesta di affidamento esclusivo da parte del padre e con la madre che sfida apertamente le decisioni dei giudici e, a quanto pare, senza incorrere in alcuna sanzione. A tutto si aggiunga la campagna di delegittimazione e pesante ingerenza, organizzata da terzi e coadiuvata da un noto esponente del mondo politico (l’on.Stefano Pedica)

 
MariaRosaDeHellagenDate: Giovedì, 24/03/2011, 05:01 | Message # 5
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Interrogazione parlamentare del caso

http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=16&id=00478437∂=doc_dc-allegatob_ab-sezionetit_icrdrs&parse=no
http://www.senato.it/japp....arse=no

Interrogazione Pedica (IDV) Al Ministro della giustizia -

Premesso che: con legge 27 maggio 1991, n. 176, l'Italia ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo, stipulata a New York dai Paesi aderenti all'ONU il 20 novembre 1989; la predetta Convenzione, all'articolo 3, comma 1, recita:

"in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente";

risulta all'interrogante che nelle separazioni conflittuali alcuni giudici del Tribunale dei minori di Roma, negli ultimi tempi, avrebbero fortemente penalizzato i genitori idonei e con i quali i figli hanno il legame affettivo più forte; in particolare questi giudici si distinguerebbero, come sottolineato da numerosi atti di sindacato ispettivo presentati negli ultimi anni, per sentenze nelle quali i figli che hanno un forte legame con uno solo dei due genitori verrebbero separati da loro e collocati in case famiglia con forti restrizioni nelle visite e, in diversi casi, anche con l'interruzione di qualsiasi rapporto affettivo con il genitore con cui sono cresciuti e i suoi familiari;

il Comitato "Vittime della giustizia minorile" ha segnalato all'interrogante diversi casi nei quali le relazioni dei consulenti tecnici del Tribunale o dei periti di parte non sarebbero state prese in considerazione dai giudici e, laddove si sconsigliava la separazione dei figli dalle madri per i gravi traumi che questo avrebbe comportato, i bambini sarebbero stati comunque tolti loro e collocati in case famiglia; t

tale quadro potrebbe indicare la sussistenza di un problema che oggi affligge numerosi genitori, i quali risulterebbero in qualche modo vittime di una controversa interpretazione della legge n. 54 del 2006 sull'affido condiviso, o di imperizia del collegio giudicante, poiché, sebbene per il perseguimento dell'ammirevole scopo di dare al bambino entrambi i genitori, di fatto si addiverrebbe al risultato di rendere il minore "orfano" per decreto del giudice e con metodologie spesso contrarie ai più elementari principi di tutela e rispetto nei confronti dei minori;

rilevato che, a quanto risulta all'interrogante: in questi giorni i quotidiani nazionali e locali hanno riportato la storia del minore A. L. F., poiché la disposizione di allontanamento dalla madre V. P. presa dal giudice del Tribunale dei minori, dottor Ianniello, e le modalità di esecuzione della stessa hanno destato particolare clamore nella comunità di Sezze (Latina) dove il minore è residente;

per riassumere le vicende giudiziarie legate al caso di A. L. F. si rappresenta che, con provvedimento del 20 maggio 2009 n. 8164 del 2009, il dottor Ianniello del Tribunale dei minori di Roma disponeva

la soppressione della potestà genitoriale della signora V. P. sul piccolo A. L. F. per la durata di un anno con collocazione del figlio presso la madre;

il 15 dicembre 2009, con decreto n. 7855, il giudice stabiliva la decadenza della potestà genitoriale di V. P. e disponeva l'immediata collocazione del figlio presso il padre;

con provvedimento n. 914 del 2 febbraio 2010, dopo aver respinto l'istanza della signora P. con la quale si chiedeva il collocamento del minore presso la madre e l'attivazione di un percorso di psicoterapia e mediazione familiare presso un centro specializzato, il dottor Ianniello confermava l'immediato allontanamento del minore e il collocamento presso il padre;

i giorni 26 e 27 gennaio 2010 gli assistenti sociali e i carabinieri si recavano presso l'abitazione della signora P. per prelevare il figlio, ma, nonostante la piena collaborazione di quest'ultima, dichiarata nelle relazioni agli atti, non riuscivano a prelevare A. L. F. posto il suo disperato e ostinato rifiuto di andare dal padre;

con provvedimento n. 1037 del 10 febbraio 2010, integrando e modificando il provvedimento del 2 febbraio 2010, il dottor Ianniello disponeva che il minore fosse collocato in casa famiglia in modo da evitare "un brusco passaggio dall'uno all'altro genitore che potrebbe risolversi in un rifiuto del bambino nei confronti del secondo genitore";

il giudice minorile, con provvedimento n. 1188 del 16 febbraio 2010, nominava un curatore speciale, nella persona dell'avvocato Enrico Ronchini;

con provvedimento n. 1678 del 2 marzo 2010 il dottor Ianniello reintegrava la potestà genitoriale della madre e disponeva l'obbligo della stessa di accompagnare personalmente il minore presso la casa famiglia con ampio diritto di soggiorno del bambino presso entrambi i genitori;

il curatore, avvocato Ronchini, in data 16 marzo 2010, formalizzava una proposta di mediazione, firmata dai genitori e dai legali dei genitori di A. L. F., finalizzata a sospendere il trasferimento del minore in casa famiglia e a riprendere gli incontri con il padre assumendo il compito di segnalare al Tribunale per i minori eventuali inosservanze;

la signora P., come sostenuto dal legale di parte dottor Girolamo Coffari, presidente del "Movimento per l'infanzia", avrebbe espresso la massima collaborazione per favorire il rispetto degli accordi predisposti dal curatore e quindi, in occasione del primo incontro, venerdì 19 marzo, stabilito tra il figlio e il sig. F., avrebbe accolto il curatore che si è recato presso la sua abitazione per parlare con il bambino, e tuttavia lo stesso dottor Ronchini, dopo un tentativo di convincere il piccolo ad andare dal padre, durato più di due ore, ha desistito dal suo intento per il rifiuto espresso dal bambino;

con ordinanza del 13 aprile 2010, il dottor Ianniello disponeva quindi "in via provvisoria ed urgente l'allontanamento immediato del minore (...) per l'inserimento in una casa famiglia, al di fuori del territorio di residenza (...) con sospensione, allo stato del rapporto con la figura materna per favorire il processo di inserimento";

in data 14 aprile 2010 è stato presentato dall'avvocato della famiglia materna dottor Girolamo Coffari ricorso per la revoca dell'ordinanza da ultimo menzionata, nel quale si evidenzia come l'atto del dottor Ianniello apparirebbe illegittimo in quanto, fra gli altri profili, il minore non sarebbe stato ascoltato nelle sue volontà, violando pertanto il diritto di ascolto.

Inoltre la storia giudiziaria del caso mostrerebbe mancanza e illogicità di motivazione nonché contraddittorietà fra più atti;

il 15 aprile 2010 quattordici agenti della Questura di Latina sono stati inviati, su ordine del Tribunale dei minori di Roma, a Sezze, a prelevare il minore, il quale tuttavia si trovava fuori dall'abitazione di residenza, pertanto, dopo alcune ore di stazionamento davanti all'abitazione, avvocati e familiari sono giunti a una mediazione con le forze dell'ordine per la quale il bambino sarebbe stato consegnato in Questura nel pomeriggio: comprendendo la circostanza, il bambino avrebbe accusato un forte malessere, con minacce e tentativo di suicidio, per cui la madre si sarebbe vista costretta a portarlo all'ospedale dove è stato visitato e tenuto sotto controllo fino a che non è apparso riprendersi.

Nella notte, tuttavia, sarebbe stato ancora male e sarebbe stato nuovamente visitato il mattino dopo; sempre in data 15 aprile 2010 è stato presentato dall'avvocato della famiglia materna atto di ricusazione del giudice, ai sensi dell'art. 52 del codice di procedura civile che attribuisce alle parti detta possibilità quando lo stesso sia sospetto di parzialità, in quanto sussiste uno dei presupposti per la sua astensione obbligatoria ai sensi dell'art. 51 del codice civile e tuttavia il medesimo giudice non provvede ad astenersi volontariamente;

da quanto sopra riportato si evince come il dottor Ianniello abbia emesso, nell'arco di 4 mesi, dal dicembre 2009, cinque provvedimenti che riguardano il minore A. L. F. con una media, quindi, di circa un provvedimento al mese; tale proliferazione di decreti, ordinanze, integrazioni di decreti avrebbe avuto, come riportato dalla famiglia materna che l'interrogante ha avuto modo di incontrare, l'effetto di traumatizzare il bambino che, nel giro di poche settimane, è stato invitato nell'ordine:

ad andare a vivere stabilmente con il padre;

ad andare a vivere in una casa famiglia accompagnato dagli assistenti sociali o dai carabinieri;

ad andare in una casa famiglia vicino alla propria abitazione accompagnato dalla madre;

ad andare di nuovo con il padre per circa tre giorni a settimana;

da ultimo, ad andare a vivere in casa famiglia lontano da casa con il divieto di vedere la madre;

desta sconcerto la facilità con la quale il dottor Ianniello ha cambiato idea e ipotizzato soluzioni diverse per un bambino, senza che siano intervenuti cambiamenti significativi che avrebbero potuto giustificare decisioni fra loro contraddittorie e inconciliabili; così come non risulta comprensibile, a opinione dell'interrogante e del legale che sostiene la signora P., nominare un curatore e dopo quindici giorni restituire la potestà genitoriale alla madre, quindi vietare contestualmente ogni contatto fra la madre e il bambino;

è inoltre inspiegabile decidere di collocare un bambino in casa famiglia facendolo accompagnare dalla madre, seguendo quindi un normale percorso di adeguamento, prevedendo ampia possibilità della stessa di avere con sé il figlio e, a distanza di un mese, senza che nel frattempo sia successo nulla di significativo, se non il fallimento di un tentativo inutile e ultroneo del curatore, cambiare completamente idea e vietare i contatti fra la madre e il figlio, imporre l'uso della forza nel prelevare il bambino agli organi di polizia e decidere di portare il bambino presso una casa famiglia addirittura "al di fuori del territorio di attuale residenza del minore";

rimangono oscure, in particolare, le ragioni che hanno indotto il giudice minorile a cambiare, con l'ultimo provvedimento del 13 aprile 2010, le sue determinazioni in modo così drastico e gravemente afflittivo per il piccolo A. L. F., in quanto il dottor Ianniello, con la decisione di vietare in maniera repentina, assoluta e drastica i rapporti madre-figlio, rischia non solo di disattendere, ancora una volta, le risultanze della approfondita analisi compiuta dagli specialisti medici, ma anche di contraddire se stesso rispetto al provvedimento del 2 marzo 2010, che stabiliva un collocamento presso la casa famiglia con consegna a cura della madre e ampia facoltà di visita;

il dottor Ianniello ha motivato le sue determinazioni imputando alla signora P. ed alla famiglia materna la responsabilità del "tentativo, fin qui riuscito, di escludere del tutto la figura paterna dalla vita del figlio" rilevando la necessità di interrompere "al più presto questo legame malato" tra madre e figlio, dimenticando che l'ultimo provvedimento emesso prevedeva l'accompagnamento della madre presso una casa famiglia, e non del padre;

la circostanza relativa al "legame malato" tra la signora P. e il figlio, utilizzata dal giudice, al fine di giustificare l'adozione di un tale provvedimento, è smentita dalle considerazioni del dottor Sabatello, consulente tecnico d'ufficio, il quale definisce la signora P. "unico punto di riferimento" per il figlio e, nella sua relazione, non contempla neppure come ipotesi residuale o estrema il collocamento del minore lontano dalla madre, e da quelle del professor Cancrini e del dottor Di Bartolomeo, gli esperti psicoterapeuti che si sono occupati della vicenda, che confermano come il collocamento del piccolo A. L. F. presso la casa famiglia comporterebbe un trauma irrisolvibile;

il bambino, che ha sempre vissuto con la madre, ha un rapporto affettivo e relazionale imprescindibile con la stessa, e non si ravvisa nell'ordinanza del dottor Ianniello alcun tipo di problema psicologico o sociale o patrimoniale della figura materna, che avrebbe potuto legittimare una misura tanto intrusiva nella vita del minore;

ritenuto che:

la mancata ricerca di altre strade per superare il rifiuto del bambino nei confronti del padre, che pure erano state indicate dai periti, si è risolta in un provvedimento punitivo nei confronti del piccolo A. L. F. che dovrebbe, secondo il decreto, lasciare la sua casa, la sua città, la sua scuola, i suoi compagni e, soprattutto, la mamma, per trascorrere un periodo imprecisato a Roma, in una casa famiglia di cui non si conosce neppure il nome, quando invece sembra essere al momento un bambino che a scuola va bene e che vive serenamente con sua madre;

tale metodologia utilizzata da parte del dottor Ianniello appare all'interrogante un affronto al buonsenso che si discosta radicalmente dai migliori orientamenti e sensibilità che in tema di diritti dei bambini intendono promuovere una cosiddetta "giustizia mite";

provvedimenti simili, oltretutto, non sarebbero un'eccezione, come sottolineato dalle molte interrogazioni presentate da diversi parlamentari su diversi giudici del Tribunale per i minori di Roma; considerato, infine, che emerge ogni giorno che la struttura giudiziaria in questione soffre da tempo di una carenza di risorse finanziarie e di organico, la quale rischia di compromettere il funzionamento amministrativo del tribunale nonché la rapida conclusione dei procedimenti pendenti, si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo non ritenga opportuno assumere, nell'ambito delle proprie competenze, iniziative, con riferimento a quanto descritto in premessa, al fine di verificare l'eventuale sussistenza di presupposti idonei a promuovere un'azione disciplinare.

A tal fine, si segnala l'opportunità di appurare:

a) se siano stati garantiti nei confronti del minore citato la tutela dell'incolumità fisica e psicologica e l'ascolto delle sue ragioni, ed in generale i diritti garantiti dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, e se ci siano eventuali ragioni amministrative che impediscano la sua permanenza nel contesto familiare in cui è cresciuto;

b) se i minori coinvolti nelle cause di affido trattate dal giudice Roberto Ianniello, nei cui confronti sono state presentate interrogazioni parlamentari, richieste di ricusazione ed esposti al Consiglio superiore della magistratura, siano stati adeguatamente tutelati nel loro diritto di continuare a godere dell'affetto del genitore che rappresentava il loro unico punto di riferimento;

se il Ministro in indirizzo non ritenga necessario verificare:

quanti siano all'anno i collocamenti in casa famiglia disposti dal Tribunale dei minori di Roma nei casi in cui esista un genitore idoneo che abbia un forte legame affettivo con il figlio;

a quanto ammontino annualmente le spese relative ai collocamenti in comunità o case famiglia disposti dal Tribunale dei minori di Roma considerando che il costo per lo Stato varia dai 70 ai 300 euro al giorno per ciascun minore;

quanti casi di collocamento in casa famiglia vengano attuati annualmente in presenza di genitori idonei ma indigenti, visto che appare evidente che un contributo economico alla famiglia in difficoltà avrebbe costi molto inferiori del mantenimento dei figli minori in una comunità;

quanti siano infine gli affidi condivisi concessi nonostante uno dei genitori abbia subito condanne o non sia stato ritenuto idoneo dai periti del giudice;

se non si ritenga di dover intervenire urgentemente al fine di garantire alla Presidenza del Tribunale dei minori di Roma le risorse necessarie per assicurare non soltanto il funzionamento amministrativo della struttura, ma anche la definizione rapida dei processi, in quanto, se è vero che una giustizia veloce dovrebbe essere garantita a tutti i cittadini, questa appare ancora più necessaria nei processi che interessano minori, dato che l'incertezza derivante da una situazione giudiziaria indefinita rischia di turbare permanentemente il fanciullo nella crescita. (4-03096)

 
MariaRosaDeHellagenDate: Mercoledì, 30/03/2011, 04:35 | Message # 6
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http://www.dirittofamiliare.info/2011/03/dopo-la-telefonata-di-un-senatore-idv-giudice-cambia-il-destino-di-un-bimbo/

Dopo la telefonata di un senatore Idv giudice cambia il destino di un bimbo

Il piccolo è il figlio di una esponente Idv. Quando arrivò la polizia per eseguire l’ordine della magistratura che permetteva anche al padre di vederlo, un intervento dall’alto cambiò le carte in tavola

La tutela della riservatezza dei protagonisti – ed in particolare del piccolo, incolpevole oggetto della contesa – impone di non fare né nomi né cognomi. Ma per capire bene cosa sia accaduto intorno alla sorte di L. bisogna dire che la mamma del bambino non è una mamma qualunque: è una militante dell’Italia dei Valori, ed oggi è responsabile femminile dell’Idv a Latina. E proprio l’intervento dall’alto di un senatore del partito di Di Pietro – secondo quanto denuncia il padre del bambino – ha permesso alla esponente della Idv di non rispettare gli ordini della magistratura, impedendo di fatto al padre del bambino di poterlo finalmente rivedere.

A monte c’è una storia purtroppo comune: un amore che finisce malamente, il figlio nato da quell’unione che si trova al centro della disputa tra padre e madre. Nell’autunno del 2009, un’ordinanza del tribunale dei minori di Latina stabilisce che il piccolo deve essere tolto alla mamma e consegnato al papà. Ma la madre decide di non eseguire l’ordine dei giudici, e semplicemente fa sparire il figlio della circolazione.

Fino a questo punto, siamo ancora in una situazione – per quanto drammatica – già vista. Ma è quel che accade dopo che diventa di difficile comprensione, se non alla luce delle pressioni politiche di cui si legge nella lettera inviata dal padre al ministro Alfano. Il padre, infatti, assume un investigatore privato che localizza il bambino e la madre.

L‘indirizzo viene segnalato alla Procura dei minori. Dal pubblico ministero parte l’ordine ai carabinieri di prelevare il bambino, ma i carabinieri non eseguono l’ordine perchè il piccolo si rifiuta. A quel punto il giudice Roberto Janniello emana una nuova ordinanza per ribadire che il figlio va preso in consegna dai carabinieri, ritenendo che «l’opposizione del minore non debba essere ritenuta una causa che impedisca l’efficacia della decisione del tribunale, rendendo altrimenti vane un gran numero di pronunce attraverso il suscitamento di un’opposizione di bambino fortemente influenzabili dalle persone che le hanno in custodia». Ma la madre fa sparire il piccolo un’altra volta.

Per due volte la magistratura ordina che L. sia affidato ai servizi sociali, ma sono ordini che cadono nel vuoto. La questura di Latina ordina le ricerche di madre e figlio, che rimangono senza esito: fino alla mattina in cui il padre viene a sapere che il figlio è a scuola. E chiama la polizia. Gli avvenimenti successivi sono riassunti nella relazione di servizio del commissario Antonella Cristofaro, dirigente della sezione anticrimine della questura di Latina.

Il funzionario racconta di essere intervenuta presso la scuola con l’appoggio della Volante, ma di avere trovato nel cortile la madre e la nonna di L. «che molto agitate mi riferivano che erano al telefono con il presidente del tribunale dei minori di Roma e che lo stesso aveva sospeso il provvedimento in argomento, chiedendo altresì che la scrivente parlasse con il magistrato dalla loro utenza telefonica. Subito dopo la scrivente si metteva in contatto con le varie segreterie del tribunale per i minorenni, riuscendo poi ad avere una conversazione telefonica con il presidente, dottoressa Cavallo, che invitava a non eseguire il decreto poiché nel giro di poche ore ne sarebbe succeduto un altro che ne avrebbe sospeso l’esecuzione. Dopo cinque minuti la sottoscritta riceveva anche una telefonata del Capo di Gabinetto della Questura che la informava di avere ricevuto una telefonata dal presidente del tribunale che chiedeva la sospensione dell’intervento poiché era in itinere un altro provvedimento». Pertanto «la scrivente richiamava tutto il personale impegnato e tornava nei propri uffici». La mattina dopo, il commissario Cristofaro scrive un appunto alla magistratura: «Il servizio non è stato concluso in quanto da intese telefoniche con il presidente di codesto Tribunale ne è stata disposta la sospensione in attesa di altro provvedimento sospensivo che, allo stato, non risulta ancora pervenuto».

Ci sarebbe da chiedersi come è possibile che un provvedimento giudiziario, assunto in camera di consiglio, dopo avere sentito le parti, venga azzerato al telefono, senza formalità, da un presidente di tribunale. E ci sarebbe anche da capire come lo stesso presidente del tribunale dei minorenni abbia convinto il giudice che aveva emesso quel provvedimento, il giudice Janniello, ad abbandonare il processo.

Ci sarebbe da chiedere come mai il provvedimento sospensivo, annunciato «nelle prossime ore» dalla presidente Cavallo, il giorno dopo ancora non fosse stato assunto.

E quali spinte abbiano portato ad intervenire, per bloccare l’esecuzione dell’ordine, perfino il capo di gabinetto della questura. Anche il padre di L. se lo è chiesto. E si è anche dato una risposta.

Nella lettera inviata al ministro della Giustizia Angelino Alfano, il papà scrive che l’intervento della presidente Cavallo sarebbe scaturito «su sollecitazione del senatore Stefano Pedica, chiamato dalla mamma del bambino».

Cioè dello stesso senatore dell’Idv che nelle settimane scorse si era reso protagonista, affianco alla sua compagna di partito, di una martellante campagna di stampa contro il giudice Janniello, colpevole di avere consentito a un padre di vedere suo figlio.

[Fonte ilgiornale.it]

 
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